Leggo un’intervista a Maurizio Landini, Segretario Nazionale della Fiom Cgil, e ho uno slancio di speranza, di quegli “up” che si alternano ai miei “down” ormai quotidiani di impotenza di fronte alla depressione di questo paese. L’intervista gira intorno alla resistenza dei sindacati francesi sulla riforma del lavoro, ma alcuni punti mi colpiscono più di altri perché hanno un risvolto nostrano che mi interessa molto, e il primo è questo: “Io penso che l’errore più grande lo abbiamo fatto quando è caduto Berlusconi. Abbiamo accettato che un governo come quello di Monti desse applicazione alla lettera della Bce compiendo il primo attacco all’articolo 18 e alle pensioni. Abbiamo accettato senza batter ciglio l’introduzione del pareggio di bilancio in costituzione e abbiamo accettato che si instaurasse un governo che ha dato applicazione all’austerity. Abbiamo fatto solo tre ore di sciopero e basta. Quello che è arrivato dopo è una conseguenza.”
Ottimo, una dichiarazione pubblica senza giustificativi, che detta oggi, mentre tutti guardano alla lotta francese con ammirazione, e messa in relazione con la lettera di solidarietà della Cgil ai sindacati d’Oltralpe (che seppur tardiva è arrivata a destinazione), la leggo come un’esternazione intellettualmente onesta che non può essere ripetuta all’infinito, ma che in questo momento io credo fosse nuovamente necessaria. Perché se è vero che il terreno politico per la Cgil non è certo stato e non è dei migliori, e il tessuto sociale e culturale italiano è molto diverso rispetto a quello francese, il dato di fatto è lo sgretolamento del terreno di diritti di questo paese, con il conseguente indebolimento del sindacato stesso, e per questo credo che oggi le affermazioni di di Landini siano utili da ribadire per tenere la rotta lontana da quella percorsa, e per una questione di dignità (anche).
Altro punto. “Mi auguro che la battaglia francese produca risultati perché ha elementi di novità: un sindacato che non ragiona in termini di convenienza politica e che riesce a mettere insieme lavoratori, giovani, studenti, precari.” Il sindacato che vorrei non ha paura di confrontarsi con la moltitudine, e su questo vedo un passo avanti, noto elementi di apertura, e una grande scommessa che si chiama Carta dei Diritti Universali del Lavoro; e quindi banchetti in tutta Italia, la raccolta firme nelle piazze e quindi la presenza nelle strade, la proposta di tre referendum abrogativi.
Un progetto di inclusione che non ha precedenti nella storia sindacale, ma che deve presupporre un dialogo costante con quella parte di cittadini impegnati e sensibili, che dal sindacato non si sentono più rappresentati e sostenuti. Per parlare con la sinistra attiva del nostro paese, e non con quella politica che non esiste più, ci vuole coerenza, fluidità di linguaggio e quel coraggio nell’esposizione di opinione e posizione che a volte ho visto tentennante, pur nutrendo ancora speranza sul processo di rinnovamento che Susanna Camusso sta provando a mettere in atto anche all’interno del sindacato stesso. E veniamo all’ultimo punto interessante dell’intervista, perché strettamente collegato: “Penso ancora che il sindacato debba svolgere un lavoro di produzione di cultura, come soggetto di iniziativa politica, oltre al classico lavoro sindacale.”
Ebbene, il sindacato italiano, negli ultimi anni, si è incancrenito a rincorrere le emergenze, diventando elemento assistenziale, collante sociale indispensabile (e per fortuna che c’è stato), ma estremamente riduttivo se lasciato solo, e che porta all’eutanasia di sé stessi se si tralascia soprattutto a livello locale l’aspetto intellettuale e politico, il confronto costante con la base, e i ragionamenti interni di crescita e critica costruttiva. La Carta dei diritti e altre iniziative sono un buon inizio, ma non bastano a riconquistare il campo, e per essere creduti è necessario essere credibili durante il percorso.
Landini termina l’intervista telefonica con un VIVE LA FRANCE!, e io dico all’italiana… Viva Landini.