L’impianto accusatorio del processo “Crimine” regge anche in Cassazione che ieri sera ha messo il sigillo al concetto di “‘ndrangheta unitaria”. Si è concluso il processo con più di 100 imputati, nato dall’inchiesta che aveva portato all’arresto di 300 persone tra la Calabria e la Lombardia nel luglio 2010, quando i carabinieri stroncarono i vertici delle famiglie mafiose della provincia reggina.

Undici nuove assoluzioni e diverse riduzioni di pena senza rinvio ma anche una decina di annullamenti. Per il resto la Corte di Cassazione ha confermato la pesantissima sentenza emessa dai giudici della Corte d’Appello di Reggio Calabria sul maxi-processo alla ‘ndrangheta il cui vertice è rappresentato dalla “Provincia” o “Crimine”, del quale facevano parte le famiglie mafiose dei tre mandamenti (tirrenica, jonica e Reggio Calabria città) all’interno dei quali si muovono i “locali”.

Infine, c’è il quarto mandamento, quello della “Lombardia”, che raggruppa tutti i “locali” che operano nella regione del Nord Italia ma che dipendono comunque dalla Calabria dove la ‘ndrangheta è nata e dove si continuano a prendere le decisioni importanti come quella di reprimere nel sangue ogni tentativo autonomista dalla “casa madre”. Proprio come è stato per l’omicidio del boss Nunzio Novella, ucciso per le sue velleità separatiste.

Con l’inchiesta “Crimine”, il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri (all’epoca procuratore aggiunto di Reggio Calabria), i procuratori Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino (ora a Roma) e i sostituti Maria Luisa Miranda, Antonio De Bernardo e Giovanni Musarò erano riusciti a ricostruire l’assetto della ‘ndrangheta. Un assetto diverso da quello di Cosa Nostra siciliana ma ugualmente articolato. Pur mantenendo una struttura orizzontale, infatti, non ci sono più un insieme di cosche, famiglie o ‘ndrine scoordinate e scollegate tra di loro, ma un’organizzazione di “tipo mafioso, segreta, fortemente strutturata su base territoriale, articolata su più livelli e provvista di organismi di vertice”.

Ed è a questo punto che spunta don Mico Oppedisano, sulla cui figura si è dibattuto durante le varie fasi del processo. L’anziano, infatti, non era il capo assoluto della ‘ndrangheta. Piuttosto era stato nominato “capo-crimine” nel settembre del 2009 (in occasione della festa di Polsi), dopo la cattura di ‘Ntoni Gambazza”, all’anagrafe Antonio Pelle, boss di San Luca per 9 anni latitante, arrestato dai carabinieri del Ros nel giugno dello stesso anno quando fu trovato all’ospedale di Polistena dove si stava curando un’ernia strozzata. “È tutto finito, è tutto finito” fu la frase che l’anziano boss pronunciò quando fu scovato dal colonnello Valerio Giardina e dal capitano Gerardo Lardieri.

“Gambazza” mori pochi mesi dopo e il capo-crimine divenne don Mico Oppedisano, una figura “super partes” individuata anche in base all’età e all’esperienza. Una figura alla quale, in sostanza, sarebbe spettato il compito di dirimere i contrasti che potevano sorgere tra le cosche mafiose, mantenere l’equilibrio labile che ha portato la ‘ndrangheta ad essere l’organizzazione mafiosa più pericolosa al mondo, leader del narcotraffico internazionale.

“La ‘ndrangheta, anche quella che importa dal Sudamerica cocaina o che ricicla nei mercati finanziari mondiali ingenti risorse economiche, – scrive il giudice Minutoli nella sentenza di primo grado – è quella che ha come substrato imprescindibile rituali e cariche, gerarchie e rapporti che hanno il loro fondamento in una subcultura ancestrale e risalente nel tempo, che la globalizzazione del crimine non ha eliminato ma che, probabilmente, costituisce la forza di quella organizzazione ed il suo ‘valore aggiunto’”.

Dopo il summit di Montalto, interrotto da un blitz dei carabinieri nel 1969, per la prima volta con l’inchiesta “Crimine” nel 2009 la Direzione distrettuale antimafia è riuscita a filmare una riunione di ‘ndranghetisti a Polsi, in occasione della festa della Madonna.

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