4 – Perché molti piccoli azionisti che negli ultimi anni hanno cercato di disfarsi dei titoli prima del crollo del prezzo non sono riusciti a farlo, a differenza dei “soliti noti”?
Visto che le azioni non erano quotate, l’unico modo per liberarsene era chiedere alla banca di ricomprarle. Ma l’istituto non è tenuto a farlo. Quando, tra 2013 e 2014, le richieste hanno iniziato ad accumularsi, il tempo di evasione delle pratiche è lievitato e molte sono rimaste ferme sulle inevase. In compenso, come rivela la relazione scritta dagli ispettori della Bce nel 2015 di cui dà notizia Repubblica, “almeno 200 ordini sono stati evasi con una priorità che non ha seguito la normale procedura, per un controvalore di 21,8 milioni di euro”. Ad alcuni clienti, del resto, il riacquisto era stato garantito per iscritto. I nomi di alcuni dei fortunati sono stati rivelati da L’Espresso: dal patron della Diesel Renzo Rosso, che ha venduto per 3,2 milioni un pacchetto comprato anni prima per poco più di 2,8, alla holding Finpiave di Giuseppe Stefanel, dalla famiglia vicentina Spezzapria proprietaria del gruppo siderurgico Forgital alla banca Ibl della famiglia D’Amelio.
5 – I clienti erano stati informati dei rischi che correvano comprando quei titoli?
Dalla relazione Bce emerge anche che come nel caso di Banca Etruria, Banca Marche, Cariferrara e Carichieti i profili di rischio dei clienti compilati in base alla direttiva Mifid sono stati in molti casi falsati. In particolare 58mila azionisti – 29 mila nuovi sottoscrittori e altrettanti già soci della banca – sono stati classificati in modo inappropriato, attribuendo loro competenze finanziarie che non possedevano. Questo per farli risultare sufficientemente esperti da poter comprare, in sede di aumento di capitale, titoli il cui valore era fissato in modo discrezionale. Titoli “sempre sovrastimati come dimostra la costante e significativa differenza tra il valore dei titoli della Bpvi e delle altre popolari quotate, utilizzando medesimi modelli di valutazione”.