MODENA – L’hanno definita “maratona”. Per fare una maratona, i quarantadue chilometri olimpici, ci si impiegano meno di diciannove ore. Dalle due del pomeriggio dell’11 giugno fino alle 9 di mattina del 12. E’ una reunion, una call, un evento da raccontare, da “Io c’ero”. Ci siamo. Otto spettacoli targati Antonio Latella e raccolti in questa Santa Estasi a cercare la trance, l’abbattimento della soglia di ogni barriera per raggiungere l’acme primitivo del teatro, il suono della parola, quel nutrimento che viene da lontano, scevro di orpelli, segni, sottolineature, andando a scavare, ad ogni pièce, ad ogni contrappunto, nel grande magma delle storie millenarie del mito, i rimandi, la forza, tuttora intatta, di quegli insegnamenti spontanei e non didattici.
Progetto (certamente e inevitabilmente, per potenza e bellezza, lo troverete nelle liste dei prossimi Premi Ubu) del regista napoletano che ha attirato attorno a sé una folta e ricca ciurma di drammaturghi ed attori under 30, anche questo un atto forte, inequivocabile, coraggioso. Una grande macchina che ci ha consegnato questi “Otto ritratti di famiglia”, cominciando da Ifigenia in Aulide, passando per Elena, esplodendo in Agamennone, sviluppandosi in Elettra, argomentando in Oreste, diluendosi nelle Eumenidi, prendendo corpo in Ifigenia in Tauride, e concludendo in Crisotemi. Sedici giovani interpreti che sono giunti fin qua dopo una selezione che all’inizio contava 500 allievi. Una scena pulita, non carica né opulenta, con un fil rouge – cifra latelliana ben riconoscibile a cavallo tra il pop e la tragedia, l’ironia e il melodramma, il tutto impastato e oliato grazie ai fedelissimi Federico Bellini e Linda Dalisi.
Segnatevi qualche nome d’attore (negli altri il difetto più comune erano i decibel fuori controllo) che nei prossimi anni saranno in cima alla lista dei desideri dei registi: Leonardo Lidi, un energico e mastodontico Agamennone che pone peso e forza in ogni sua battuta; Christian Larosa, emerge vigoroso nel suo Oreste, dove dimostra il suo saper stare fuori e dentro la scena; Ilaria Matilde Vigna, una Clitemnestra vamp e dolce, ora Gertrude adesso Lady Macbeth, di eleganti movenze feline, somigliante a Fanny Ardant; Barbara Chichiarelli, Elena kitsch, violenta e femme fatale ricordando la Melato, non dimenticando Isacco Venturini e Alessandro Bay Rossi che sprizzano fascino, curiosità, leggerezza, divertimento, sostanza.
In Ifigenia in Aulide, la scena si apre con un grande tavolo, come fossimo in un consiglio d’amministrazione; i protagonisti in abiti contemporanei, Atreo e Tieste, manager a confronto a spartirsi figli (come Conte Ugolino) e regno. Aleggia e naviga tra le pieghe una sottile ma costante patina di sensualità, sessualità, erotismo, di tatto e di tocco, di plasmare con le proprie mani i volti e i destini degli altri commilitoni camerateschi in questa spedizione senza ritorno. Un gioco a lanciarsi i bicchieri di vetro in stile rugby, duelli alla Kill Bill a colpi di coperchi di pentola, Ifigenia che si accartoccia spogliandosi sotto il tavolaccio-isola (attorno ci girano gli “squali”) cantando soffice Pop porno e lasciandosi andare ad un amplesso incestuoso con il padre, e un Achille che è un bullo uscito da Grease.
In Elena, un dondolo gigante a forma di unicorno e una Yellow Submarine in sottofondo e un’armonica a bocca da Spaghetti Western, aprivano la strada alla centrale figura femminile suddivisa nelle sette attrici in un fenomenale, dal punto di vista estetico, formale, d’impatto e vocale, coro quasi hip hop a rimbalzarsi le battute, tutte impellicciate e in lingerie, Troiane dal sapore brechtiano. In Agamennone (step tra i meno riusciti), il guardiano ha pedalato costantemente su una bicicletta sui rulli, mentre il coro sul fondale declamava come un urlo da stadio in greco antico e in latino, mentre in Elettra l’immagine caravaggesca del padre sul letto d’obitorio che viene rivestito in un testo di rara poesia (“danzami fino alla fine dell’amore”) dove Coen fa vibrare le sue note afflitte e laceranti e brilla la figura del Meschino (Aliosha Massine), contadino analfabeta e ruspante, mentre l’indeciso Oreste si pettina come Hitler, e ora è Telemaco, adesso Amleto, infine Macbeth in balia delle donne, madre e sorella.
Il personaggio di Oreste prende il sopravvento nell’omonima parte architettata come una prova aperta con un regista invasivo kantoriano che, teatro nel teatro da “Rumori fuori scena”, collauda, sperimenta. Anche qui la musica fa da appoggio sarcastico tra Alla fiera dell’Est e Fiesta della Carrà in una disco da luci stroboscopiche. Nelle Eumenidi (non così brillante) si assiste ad un “meglio di” con richiami scenici dei quadri precedenti, per approdare ad un’ultima cena in Crisotemi che commuove e scioglie: se Filippide alla fine della sua Maratona morì d’infarto, noi non solo siamo sopravvissuti ma ne siamo usciti grati per la visione, per questa Grande Bellezza.
Visto al Teatro delle Passioni, Modena, 11-12 giugno 2016