Aveva detto: “Noi non siamo tra quelli che dicono che abbiamo vinto”. Ora fa mettere in un comunicato la parola “sconfitta”. Matteo Renzi non si presenta ai giornalisti al largo del Nazareno, la vicesegretaria Debora Serracchiani non si vede, l’altro vice Lorenzo Guerini va a Milano per festeggiare Beppe Sala (almeno lui) e riserva al disastro del resto d’Italia solo poche parole. Nel Partito democratico è già cominciata la resa dei conti, il presidente-segretario ha anticipato apposta la direzione che dovrà discutere dei risultati delle Comunali. Sarà un bagno di sangue, quelli della sinistra Pd caricano come i tori. “La sconfitta ha caratteri enormi per il numero di città e per la qualità della sconfitta” dice Davide Zoggia, bersaniano. “Sembriamo sempre più un partito dell’establishment – aggiunge Miguel Gotor – mentre la sinistra riformista deve essere più popolare. Appariamo quelli della democrazia dell’autoscatto e del narcisismo”. Per Roberto Speranza è “un segnale politico chiaro al governo, a Renzi e all’azione che il Pd sta portando avanti” perché “c’è una difficoltà profonda: un pezzo della società trova una contraddizione tra il racconto del Pd e la vita quotidiana”.
E ora a chiedere una riflessione non sono solo gli “antirenziani per forza”. Non sono le correnti interne in Parlamento, quelle sempre pronti a obiettare su ogni testo di legge. Ora è il turno dei sindaci, dei presidenti di Regione, degli amministratori, cioè il mondo che fino a qualche tempo fa è stato celebrato da Renzi come il modello, l’humus in cui è nato la macchina del potere renziana, il team degli ex sindaci (Delrio, Guerini, Reggi eccetera). “Il Pd ha avuto il migliore risultato perché è stato unito e perché ha saputo interpretare una linea del centrosinistra unita e non del partito fai da te” punge Virginio Merola, l’unico – con Sala – che ce l’ha fatta. “Cosa dirò a Renzi? Gli dirò che ci sono questioni nazionali che vanno affrontate”.
Lo aveva detto Piero Fassino tre ore dopo la chiusura delle urne del primo turno (prima ancora del crollo del ballottaggio), lo ribadisce ora Merola dopo la riconferma come primo cittadino di Bologna. Nonostante il capo del governo abbia in tutti i modi allontanato le amministrative dalle sorti – e dalle responsabilità – del governo nazionale, non si può non vedere il peso della politica nazionale sulle Comunali. “Si deve convincere che fare le cose solo dall’alto non porta ai risultati che vogliamo ottenere – aggiunge il sindaco di Bologna – Bisogna ricostruire questo partito. Il fatto che il Pd, un partito di sinistra, abbia più difficoltà nei ceti popolari dei quartieri delle grandi città è un segnale che va accolto con prudenza”.
“Il Pd ha perso la connessione con una parte importante del suo popolo” spiega il presidente della Toscana Enrico Rossi, ufficialmente candidato alla segreteria nazionale, che sente da vicino l’odore della sconfitta (nella sua Regione il Pd ne ha perse 5 su 6). E torna anche Sergio Chiamparino, presidente della Regione Piemonte, che aveva percepito un’atmosfera poco confortevole nei giorni scorsi, quando aveva chiesto a Renzi – in sostanza – di smettere di dire che “va tutto bene, madama la marchesa”. Oggi ribadisce che quella di Fassino è una “sconfitta immeritata di un ottimo amministratore” e che “quando si perde in una città come Torino, e in altri importanti centri come Novara (dove ha vinto il centrodestra, ndr) si impone per tutti una riflessione seria e approfondita, a cominciare dal sottoscritto”.
La diagnosi definitiva è quella di Roberto Giachetti, schiantato dalla Raggi al ballottaggio. “Da subito, ho capito che c’era una montagna da scalare – racconta al Corriere della Sera – E dovevo riuscirci da solo. Il partito, purtroppo, più che un risorsa, s’è rivelato una tragica zavorra“. Mafia Capitale, prosegue, “l’ho incontrata ovunque sono andato. L’ho respirata. Una cappa. E, sotto la cappa, sempre gli stessi discorsi della gente: pure voi, Giache’, ce stavate in mezzo pure voi del Pd. E io a dire, a spiegare che abbiamo fatto pulizia, che siamo stati gli unici a farla e, soprattutto, che la mia storia sarebbe stata una garanzia. Anni e anni di lavoro in Campidoglio e mai, dico mai mezzo sospetto, un refolo perfido, niente, mai niente. Mi ascoltavano. Poi mi dicevano: senti, nun è nà cosa personale. È che tu rappresenti il Pd. Ce dispiace, ma nun te votamo“. Di Pd come un “peso” parla invece il vice sindaco uscente di Savona Livio Di Tullo, che ha annunciato con un post su Facebook la sua decisione di lasciare il Partito Democratico. “Una settimana fa ho comunicato al segretario Cittadino del Pd e a quello provinciale le mie dimissioni dal partito. Se devo dirla tutta, l’essere nel Pd è un freno e non una opportunità”, scrive Di Tullo.
E il resto del partito? Al netto del comunicato del Nazareno, si gioca in difesa. “Si tratta di un voto amministrativo”, sottolinea in tv il capogruppo alla Camera Ettore Rosato. “Alle amministrative si vince e si perde, è la democrazia bellezza”, minimizza via Twitter il senatore Andrea Marcucci. “Vinciamo in maniera netta contro la destra, ma paghiamo dazio contro i 5 stelle perché la destra li vota”, spiega il vicesegretario Lorenzo Guerini, una dinamica che potrebbe trasformarsi in un incubo in vista del referendum costituzionale di ottobre. Per il momento, tuttavia, non trapela alcun pentimento sull’Italicum, che in molto vedono uscire con le ossa rotte da questo voto. A partire dalla minoranza Pd pronta a battere sul tasto. Del resto l’interpretazione di Renzi (lo ha ribadito ancora pochi giorni fa) è sempre stata quella che il primo “competitor” resta sempre il centrodestra e contro i candidati “delle destre” il Pd ai ballottaggi ha fatto segnare “una vittoria chiara e forte”. Il presidente Matteo Orfini dice che quello delle Comunali e quello del referendum sono voti diversi. Ma ammette: “Il segno è inequivocabilmente negativo”. Per lui, però, a questo punto sono i Cinquestelle – che sommano “i loro voti con quelli di tutta la destra, da Casapound, alla Lega e Forza Italia” – ad aver fondato “il vero partito della nazione”.
Stefano Esposito, senatore, renzianissimo, uomo forte del partito a Torino e ex assessore a Roma, ripete da ore quello che il partito avrebbe dovuto capire da mesi. Fassino “ha fatto bene il sindaco – dice al Corriere della Sera – Ma si è dimenticato del fatto che il Pd è al potere da 23 anni. Il suo limite principale è stato proprio il mancato ricambio”. Insomma, il caso Livorno ripetuto nel capoluogo piemontese, con le dovute differenze e proporzioni. “Lo sanno tutti che il vero potere è nelle fondazioni, nelle società partecipate, in alcuni enti culturali. I nomi sono sempre gli stessi da 20 anni. Scommettere sul nuovo è un’altra cosa”. Dal canto suo il Pd “ha fatto blocco, non ha costruito una nuova classe dirigente, anche per mancanza di coraggio delle giovani generazioni. Si sono accontentati“. Appendino e il suo entourage erano “affamati, felici di lavorare insieme, si abbracciavano. Noi invece siamo in preda a un individualismo sfrenato. I nostri dirigenti erano agli eventi pubblici con lo spirito di chi entra in un cinema d’essai per guardare un film russo. Non abbiamo più cura della casa comune. E purtroppo i risultati si vedono”. “Questa è la fine di un periodo storico – conclude – Urge riflessione, meglio se autocritica”.