Mentre tutti gli occhi erano puntati su Roma, la 32enne bocconiana ribaltava il risultato del primo turno sotto la Mole portando a casa il risultato che ora spaventa davvero il Partito democratico nazionale. Il successo è frutto del lavoro di un gruppo ben radicato sul territorio che gode di grande indipendenza anche rispetto alla Casaleggio associati. La neosindaca ha una preoccupazione sola: mostrarsi istituzionale e predicare la pax con tutti i candidati. "Ora basta con la città divisa. Non è stato un voto di protesta, ma di persone che non si sentono ascoltate"
Il lavoro sul territorio, il rigore degli inizi e il gruppo compatto nonostante tutto. L’organizzazione come unico pensiero: seguire i consigli di chi nelle istituzioni ci è già entrato, presentarsi in campagna elettorale con poche idee concrete e soprattutto avere una squadra di assessori già pronta e resa pubblica la mattina dopo l’elezione. Mentre tutti gli occhi erano puntati su Roma, intanto la grillina Chiara Appendino a Torino preparava la sua rivoluzione. Sotto di dieci punti al primo turno, dopo due settimane ha ribaltato il tavolo e battuto Piero Fassino facendo l’impresa che davvero ora spaventa il Partito democratico a livello nazionale. “Non è successo per caso: abbiamo ascoltato e parlato con tutti, abbiamo lavorato bene”, dicono i grillini tra i festeggiamenti. Ma c’è qualcosa di più e si chiama stile Appendino, quel modo di lavorare che questa volta ha fatto la differenza e che fa di Torino il laboratorio dei 5 stelle che sognano il governo.
32 anni, laureata alla Bocconi, figlia di un imprenditore e da qualche mese mamma. Il suo segreto è stato essere una M5s ortodossa, ma non farlo mai vedere davvero. Le nuove regole: non rispondere alle provocazioni, incassare e approfittare degli errori altrui. Mostrarsi istituzionali e pronti per governare nel salotto della borghesia con una fissa: parlare a tutti e mostrarsi rassicurante a qualsiasi costo. A chi le diceva (vedi l’ex presidente di Intesa San Paolo Salza) se vinci “è finita”, lei ribatteva: “E’ un nervosismo contro l’interesse di Torino e dei torinesi”. E da lì gli appelli: “Mai più una città divisa. Non è un voto di protesta, ma quello di persone che non si sono sentite ascoltate e rappresentate da questa amministrazione”. Con questa faccia pulita oggi si presenta ai giornalisti e chiede le dimissioni di Francesco Profumo, l’ultima nomina contestata di Fassino a soli tre mesi dalle elezioni, o lo stop della Tav. O il rientro del debito con Iren. Lancia bombe senza alzare la voce. E poi è indipendente, non lo dice mai ad alta voce, ma dà i segnali giusti perché lo capiscano anche gli elettori. “Siamo pronti ad accogliere la voglia di cambiamento di chi ha votato centrodestra”, ha detto prima del secondo turno. “Giudicatemi per il lavoro svolto in consiglio comunale in questi 5 anni”. Con il quartier generale purista è legata, ma non troppo. A Torino gli eletti M5s non rischiano la multa di 150mila euro in caso di dissidenza, perché la Appendino ha fatto togliere la sanzione in denaro e fatto approvare quello che ha chiamato “codice etico soft” dall’assemblea degli attivisti. Non ha messo i manifesti, ma di per sé è stato un gesto molto forte.
E’ tutta qui l’impresa torinese che impensierisce i partiti. Perché sotto la Mole non c’è stata nessuna Mafia capitale e sull’amministrazione di Piero Fassino le lamentale sono sempre state leggere e legate alla lotta politica. Se a Roma insomma per Virginia Raggi era più attesa la vittoria, nel capoluogo del Piemonte la partita è stata in salita fin dall’inizio. Sembrava impossibile vincere contro il sindaco uscente, uno che ha battuto ogni angolo della città con una campagna elettorale da stress e senza pause, e invece l’imprevedibile è capitato. Fassino le ha fatto qualche assist: dalla profezia in consiglio comunale (“Si venga lei a sedere su questa sedia”) a quando l’ha chiamata “Giovanna D’Arco della pubblica moralità” regalandole la corona della purezza. Poi la battuta: “La Raggi è più sensuale dell’Appendino, si presenta con un appeal più attraente ed attrattivo. L’Appendino mi sembra più rigida”. La candidata M5s non ha reagito alla provocazione e la campagna elettorale non è mai scesa di tono. Così subito dopo l’elezione le sue parole sono suonate come quelle di una marziana e questa volta in senso positivo: “Ringrazio Fassino, da domani sarò il sindaco di tutti”. E poi: “Sono pronta ad accogliere la voglia di cambiamento di tanti torinesi”. Così il giorno dopo la presa del potere, tutti mantengono la calma: “La volontà di cambiamento preservi la forza della città”, ha detto il vice presidente della Fondazione Agnelli, John Elkann. Ma non è un caso: la Appendino si era fatta trovare preparata e la campagna elettorale non è stata solo tra i banchetti o i meetup. Così ha deciso di incontrare decine di imprenditori e altrettante associazioni. Poi c’è stato il colloquio con il leader della sinistra Giorgio Airaudo: tenuto segreto da tutti, ma mai smentito. Lo stile Appendino è questo: dialogare con tutti, atteggiarsi da grandi anche se si è appena arrivati sulla scena.
La grillina poi si è giocata le carte giuste. Una campagna elettorale da poco più di 40mila euro e la decisione di presentare i nomi della giunta prima del secondo turno “seguendo i principi della trasparenza”. A differenza della Raggi infatti, la neosindaca di Torino ha trovato subito i curriculum per riempire le caselle della sua squadra. Da segnalare anche alcuni nomi di peso: al Bilancio Sergio Rolando, ex direttore dei conti e delle risorse finanziare del Piemonte sotto il leghista Cota; al Welfare Sonia Schellino che si occupa di associazionismo per la Compagnia San Paolo; alle Pari opportunità Marco Giusta, presidente di Arcigay a Torino. Poi il professore Guido Montanari all’Urbanistica o l’architetto Federica Patti all’Istruzione.
Ma la vittoria a Torino dei 5 stelle è molto di più del guizzo di un singolo. Dietro c’è la firma di un gruppo regionale che è riuscito ad affermarsi nella terra del Nord, quella di operai ma anche di imprenditori, quella dove non basta parlare di reddito di cittadinanza. Per capire dove parte tutto basta andare a ripescare una foto, pubblicata nei giorni scorsi su Facebook dall’ex consigliere M5s Vittorio Bertola. Uno scatto davanti alla casa della Appendino nel 2011: è il giorno del suo compleanno, è appena stata eletta e al suo fianco oltre a Bertola c’è anche il consigliere regionale Davide Bono. Dietro la macchina fotografica: Laura Castelli, quella che poi diventerà parlamentare e ora capogruppo alla Camera. E’ una classe dirigente nata ai banchetti e nei meetup dimenticati nel Nord Italia: in poco più di cinque anni sono nati e cresciuti e hanno fatto di Torino una roccaforte di voti. Si sono formati così e in Piemonte hanno avuto una storia diversa dagli altri. Bono è una delle pedine: è lui il ragazzo con lo zaino dell’Invicta che accompagna gli eletti a Roma dopo le elezioni del 2013. Ospite esterno all’hotel del primo raduno, è uno degli uomini fidati della Casaleggio associati. E’ uno che fino a poco tempo fa non rispondeva mai al telefono e non dava confidenza ai giornalisti, uno di quelli che sa le regole per sopravvivere al circo mediatico. C’è ancora lui da regista nel giorno dell’elezione a sindaco di Chiara Appendino.
Il gruppo a Torino funziona da solo e Gianroberto Casaleggio si è sempre fidato. Una delle prove concrete è successa poco prima delle elezioni: viene silurato Bertola, che fa un passo indietro autonomo dopo che capisce non sarà nominato vicesindaco. Non se ne andrà mai davvero, ma da voce critica non manca di far notare difetti e mancanze. E lo lasciano parlare, perché qui, in pieno stile del cofondatore hanno imparato a fare anche gli allontanamenti in modo indolore: meglio prima delle elezioni che dopo, quando i problemi da risolvere sono ben altri. E’ questa l’indipendenza di cui gode il M5s in città. Da oggi inizia il difficile: ha una squadra, il gruppo forte sul territorio ed eredita un comune molto più gestibile di Roma. Il colpo al governo è arrivato, ora la repubblica autonoma dei grillini in Piemonte deve dimostrare sul campo che può stare al potere. Se nella Capitale c’è solo da restare in piedi in mezzo all’emergenza, a Torino può bastare fare cose normali e dimostrare che quello è il laboratorio giusto da cui partire.