I francesi sono sempre più numerosi a giustificare il ricorso alla tortura sui prigionieri: è l’effetto degli attentati da parte di jihadisti che hanno colpito il Paese a partire dal gennaio 2015. Un sondaggio è stato commissionato dall’Acat (Action des chrétiens pour l’abolition de la torture), un’associazione che combatte la pratica della tortura. Ma è stato effettuato da un istituto esterno, l’Ifop, uno dei più affidabili nel Paese.
Le cifre parlano da sole. Alla domanda se “in certi casi eccezionali, si può consentire il ricorso alla tortura”, il 36% ha risposto di sì: era appena il 25% nel 2000, quando era stata realizzata un’inchiesta simile. Un’altra domanda era più specifica: “C’è una persona che è sospettata di aver collocato una bomba che sta per esplodere. Le forze dell’ordine sono autorizzate a torturarla per strappare informazioni?”. Ebbene, sì per il 54% dei francesi (era appena il 34% nel 2000). Un’altra domanda riguardava la disponibilità dell’intervistato, “se necessario e in casi eccezionali”, a torturare direttamente una persona nell’interesse generale. Ha risposto positivamente una minoranza, ma si tratta comunque del 18% degli intervistati. Non solo: il 45% dei francesi ritiene “efficace la tortura per prevenire gli atti di terrorismo”. Ma il 69% considera inaccettabile privare di cibo un soldato nemico fatto prigioniero, per farlo “parlare” (nel 2000 era il 75%).
“Sapevamo che c’era un’accettazione della tortura sempre più grande da parte dei francesi, dovuta alla recente ondata terroristica – sottolinea Jean-Etienne de Linares, segretario generale di Acat – ma non pensavamo che l’evoluzione fosse stata così rapida e drammatica. Ormai stanno cadendo tutte le barriere, anche di compiacenza rispetto ai Paesi che praticano regolarmente la tortura, come il Marocco”.
L’associazione, assieme ai risultati del sondaggio, ha presentato pure uno studio che analizza la situazione in merito in diversi Paesi del mondo, come la Repubblica del Congo (il Congo-Brazzaville, dove il regime di Denis Sassou-Nguesso, al potere da 32 anni, “si appoggia in parte sul ricorso alla tortura per eliminare ogni velleità di opposizione”), l’Uzbekistan (“uno degli Stati più repressivi del mondo” e dove, “in un contesto d’impunità totale, la tortura è diventata un metodo d’inchiesta ordinaria”) e il Messico (“qui il numero di ricorsi alla giustizia per denunciare la tortura è aumentato del 600% in dieci anni”).
Anche la Tunisia è stata passata al vaglio degli autori del rapporto: lì “il ricorso alla tortura è meno sistematico rispetto a prima della rivoluzione”, che nel 2011 provocò la destituzione di Ben Alì, “ma è ancora frequentemente impiegata dalle forze dell’ordine”. “Se la tortura è in molti casi una pratica quotidiana – si legge nel rapporto di Acat – è anche perché in molti Paesi i poliziotti non sono ben formati e sono pagati troppo male: per loro diventa un metodo d’inchiesta”.