La prima sezione della Cassazione aveva confermato la pena emessa nell’appello bis. Confermata l'esclusione dell'aggravante della crudeltà. Per la suprema corte, poi, "la scelta anomala di non sequestrare nell’immediatezza la bicicletta nera da donna della famiglia Stasi" è "stata correttamente individuata come un evento che avuto indubbie ripercussioni negative" sulle indagini
L’andamento delle indagini sulla morte di Chiara Poggi, la ragazza assassinata a Garlasco il 13 agosto 2007, fu “senz’altro non limpido, caratterizzato anche da errori e superficialità“. A metterlo nero su bianco sono i giudici della prima sezione penale della Cassazione, nelle motivazioni della condanna emessa nei confronti di Alberto Stasi. Il 12 dicembre del 2015, infatti, gli ermellini avevano confermato la pena emessa nel processo d’appello bis – scaturito dopo un primo annullamento con rinvio da parte della Suprema corte – condannando l’ex bocconiano a 16 anni di carcere per l’omicidio della fidanzata, trovata morta nella villa della famiglia Poggi nel comune in provincia di Pavia.
Il mancato sequestro della bicicletta
E adesso, nel motivare quella decisione, i giudici entrano nel merito delle indagini svolte nei momenti immediatamente successivi all’omicidio. In particolare – secondo la corte -“la scelta anomala di non sequestrare nell’immediatezza la bicicletta nera da donna della famiglia Stasi” è “stata correttamente individuata come un evento che avuto indubbie ripercussioni negative” sulle indagini. Il riferimento è alla bicicletta nera da donna che la testimone Franca Bermani disse di avere visto appoggiata al muretto della casa dei Poggi intorno alle 9 del 13 agosto 2007, orario compatibile con l’omicidio di Chiara. Sulla vicenda l’ex comandante della stazione dei carabinieri di Garlasco, il maresciallo Francesco Marchetto. dichiarò sotto giuramento che “la bicicletta rinvenuta nell’officina del signor Stasi Nicola non corrispondeva alle caratteristiche descritte dalla signora Bermani”: per quelle dichiarazioni è oggi imputato per falsa testimonianza.
L’anello mancante del giallo
La storia della bicicletta nera di Alberto Stasi è la chiave di volta del giallo di Garlasco: sarà sequestrata, però, solo nel 2014, a sette anni dall’omicidio, quando qualcuno le aveva già sostituito i pedali, dove furono poi ritrovate tracce del dna di Chiara Poggi. Una prova che, se acquisita subito, avrebbe potuto cambiare il tortuoso iter processuale. È per questo motivo che secondo la corte, la mancata acquisizione di tutte le bici della famiglia Stasi è senz’altro “un anello mancante” nell’andamento dell’attività investigativa. Ma nonostante il mancato sequestro, la Cassazione spiega adesso che nel vagliare gli indizi che hanno portato a ritenere Stasi colpevole “oltre ogni ragionevole dubbio”, la Corte d’appello di Milano nel processo bis si è correttamente fatta carico della “mancanza di tale tassello”, valorizzando gli altri elementi probatori.
Confermata esclusione gravante della crudeltà
Confermando la condanna nel dicembre scorso la Suprema corte aveva inoltre respinto il ricorso di Stasi e quello del pg di Milano che chiedeva il riconoscimento dell’aggravante di crudeltà. Il motivo? Per i giudici, non ci sono elementi “univocamente dimostrativi” che Stasi abbia “agito con crudeltà”. A questo proposito, i giudici citano il principio fissato nel processo a Parolisi per l’omicidio di Melania Rea. Stasi – scrivono i giudici – ha agito senza la volontà di “infliggere alla vittima sofferenze aggiuntive”. Per gli ermellini, quindi, Stasi agì con “dolo d’impeto” e “senza alcuna programmazione preventiva”: la sua condotta va inquadrata “come risposta immediata o quasi immediata ad uno stimolo esterno“.In definitiva, dunque, il quadro indiziario a carico dell’imputato “non lascia alcuno spazio, invero, a versioni alternative dotate di razionalità e plausibilità pratica, non essendo sostenibili, in base ai dati acquisiti al processo, quelle pur ipotizzate dalla difesa dell’imputato, o di fatto, comunque, scandagliate, analizzando la vita di Chiara, le sue frequentazioni, il suo ambito familiare”.
Il film dell’omicidio: “Chiara uccisa a martellate”
“Ciascun indizio -aggiungono i giudici – risulta integrarsi perfettamente con gli altri come tessere di un mosaico che hanno contribuito a creare un quadro d’insieme convergente verso la colpevolezza di Alberto Stasi oltre ogni ragionevole dubbio”. La corte, poi, spiega nel dettaglio le modalità dell’omicidio: Chiara fu uccisa con un’azione connotata da “un rapido susseguirsi di colpi di martello al capo della vittima, sferrati all’ingresso dell’abitazione, con rabbia ed emotività”. L’omicidio – sempre secondo i supremi giudici – avvenne all’interno “‘di un rapporto di intimità scatenante una emotività“, come aveva sostenuto la Corte d’appello nelle motivazioni del processo-bis.
“La mancata individuazione del movente non incide nel quadro indiziario”
In una altro passaggio delle motivazioni, i giudici affrontano poi il tema della mancata individuazione del movente, e cioè la ragione che ha scatenato l’impeto omicida di Alberto Stasi, che “non incide in alcun modo sul complessivo quadro indiziario a carico dello stesso, né appare necessario individuarla nel caso di un omicidio d’impeto”. Secondo la Suprema corte, infatti, “lo sforzo della ricerca della possibile causale dell’omicidio, scandagliando i rapporti tra Alberto Stasi e Chiara Poggi era doverosa, in considerazione del fatto che le modalità dell’aggressione emergenti dalla scena del crimine si presentano tali da rivelare l’esistenza di un pregresso tra vittima e aggressore”, tale da scatenare “il raptus omicida“. “Il fatto che sia stata solo ipotizzata, o meglio ventilata, una causa sfondo sessuale – concludono – non incide in alcun modo sul quadro indiziario”.