La prima volta che ho incontrato Virginia Raggi è stato in una giornata di fine estate del 2013 quando, come consigliera comunale, mi chiese di organizzare una visita presso alcune baraccopoli della Capitale. Da alcuni giorni donne e bambini rom vagavano lungo le strade di Tor Sapienza dopo il primo sgombero organizzato dalla Giunta Marino, che aveva messo per strada 35 famiglie in precedenza scappate da Castel Romano. Andammo da loro e per strada, sotto un telone di nylon, ascoltammo le loro storie di persone alle quali le ruspe comunali, oltre alla abitazioni, avevano abbattuto i diritti fondamentali. Virginia pianse.
Poi, sulla strada del ritorno, passammo a visitare una famiglia nella baraccopoli di Salone. Ad accoglierci fu Maria che ci parlò dei suoi quattro figli, del marito incensurato che non ce la faceva più a raccogliere ferro, della dermatite dovuta all’ansia che le aveva macchiato il volto e le braccia. Fu una visita breve ma intensa. Al ritorno in macchina le solite frasi di rito, dettate dalla rabbia e dalla frustrazione: «Questi campi non devono più esistere. Dobbiamo fare qualcosa!»
Oggi Virginia Raggi – che da quel giorno ho incontrato più volte nel tentativo di trovare insieme risposte al superamento delle baraccopoli – è diventata sindaco e quel «Dobbiamo fare qualcosa!» assume un valore diverso perché entra nella sfera della possibilità concreta. Ma per farlo occorre seguire un ordine di priorità chiaro e definito anche se, dopo gli arresti delle ultime ore, una cosa è urgente realizzare: chiudere l’Ufficio Rom del Comune di Roma, da vent’anni chiamato a gestire la vita all’interno dei cosiddetti “campi nomadi” della Capitale.
Non sarà una cosa facile! Si tratta di rimuovere dirigenti, funzionari delle forze dell’ordine, assistenti sociali, sedicenti “rappresentanti rom” direttamente o indirettamente collusi con un sistema dove scorrono mazzette, dove si parla il linguaggio del sopruso, dove la corruzione è sempre presente dietro l’angolo. Lo denunciamo senza mezzi termini da anni: c’è una massa cancerogena all’interno dell’amministrazione capitolina, che va estirpata alla radice perché con la sua presenza sarebbe garantito il fallimento di ogni intervento di discontinuità. La prima volta che lanciai questa raccomandazione fu nel corso di un convegno in Campidoglio, alla presenza dell’assessore di turno. Seguì un lungo brusio che tagliava un’aria pesante. Due mesi dopo la Guardia di finanza perquisì gli uffici dell’assessorato ed eseguì un arresto.
Quando scrivo di “massa cancerogena” mi riferisco a persone in carne ed ossa che da Veltroni ad oggi, passando per Alemanno, Marino e due commissari straordinari, sono sempre rimasti al loro posto, tra sgomberi, trasferimenti forzati, aperture e chiusure di nuove baraccopoli, incontri istituzionali, convegni,… Le stesse che in questi anni, la mattina operano sgomberi forzati a braccetto con i “capi rom” consenzienti, all’ora di pranzo li ritrovi dietro una scrivania degli uffici comunali, alla sera li incontri in un aperitivo a conversare con rappresentanti istituzionali o di organizzazioni che operano nel sociale. Tutto intorno a loro è cambiato ma loro sono sempre rimasti al loro posto, come pedine di una partita dove chi vince sono i furbi e i perdenti sono i cittadini rimasti indietro. Perché anche a questo servono i “campi rom” della Capitale: ad acquisire potere e ad accumulare fortune. E da questi Virginia Raggi dovrà ripartire da subito per dare un segnale di legalità e di rispetto dei diritti perché è davvero giunto il momento nel quale «Dobbiamo fare qualcosa!».