La protesta contro il McDonald’s in piazza del Duomo a Firenze è grottesca e ridicola. E non perché a me faccia piacere avere un ‘ristorante’ di ‘junk food’ proprio lì, anche se al Mc ci vado anche io, ogni tanto. Il punto è che i fiorentini, ormai da decenni alla mercé dei turisti e degli operatori, pensano che vietare il Mc lì significhi salvare la città, la sua identità, le sue tradizioni. Certo, si obietterà: farlo fare non sarà peggio? Sì, d’accordo, però non è un po’ tardi? E poi: ma quale identità, quali tradizioni? Il centro è un luna park per turisti.
La difesa di un luogo si fa permettendo alle persone di viverci, di costruire nel centro di una città una famiglia, di poter andare a godere del panorama e della vista, di avere i servizi. Permettere a tutti di fare ciò. Perché Firenze è di tutti. E non c’è alcuna tradizione da difendere. Alcuna identità. L’identità di una città è quella che disegnano giorno per giorno i suoi abitanti. Fiorentini o marziani che siano. Per parafrasare le parole del filosofo francese Alain Badiou, chi è a Firenze è di Firenze. Invece il centro gli abitanti non li ha più. Ha solo avventori e passanti, che vanno in centro per poi tornarsene a casa loro. È un non-luogo vuoto, preda delle scorribande di chi lo attraversa per bere all’aperto una boccia di Chianti o farsi due selfie davanti al campanile di Giotto. Passateci la sera, soprattutto d’inverno, nel centro di Firenze. Non troverete alcuna identità da difendere. Nessuna tradizione. Ma solo un posto vuoto e desolato, lo scenario triste dopo l’orgia, dove non udirete risa di bambini o tv accese sulla partita.
Se poi pensate che l’identità e la tradizione siano segretamente conservate in quelle mura, in quei monumenti, allora sappiate che, benché si stia parlando di una delle città più belle al mondo, vi state accontentando di poco. Le città non sono musei, dato che il primo problema del conservare opere d’arte in un museo è la sottrazione dell’opera stessa al suo contesto storico: il quadro, la scultura dentro il museo perdono il loro significato originario, la dislocazione della collocazione produce un effetto di straniamento. Inoltre il museo (a cielo aperto o al chiuso che sia) è come se sclerotizzasse la Storia, la congelasse in un passato che si è concluso e che non ha alcun rapporto col presente: sembra dire che la Storia è finita e non ci resta che contemplarla, perché a noi contemporanei non è dato contribuire, siamo uomini post-storici.
È evidente il succo politico che si può trarre da questa lettura: siamo solo chiamati a ‘conservare’. L’effetto di questo atteggiamento è il tableau vivant, la casa dei trogloditi come-vivevano-una-volta presso la quale i turisti vengono portati coi pullman e che ha sùbito dietro la collina il vero villaggio con le antenne paraboliche, Internet e la Playstation. La ricerca del ‘vero’ fiorentino, della ‘vera’ identità della città non ha alcun senso. L’antropologo Marco Aime nel suo libro ‘Eccessi di culture‘ (Einaudi editore) racconta la storia di alcune maestre che in perfetta buona fede, per mettere a loro agio i bimbi ‘stranieri’ a scuola, vanno alla ricerca della ‘vera’ ricetta del couscous, la trovano su Internet, cucinano e mangiano coi bimbi. A un certo punto la maestra chiede a un piccolo di origine marocchina: “È buono come quello che fa tua mamma?”. Il bimbo risponde: “Quello di mia mamma è più buono perché mette uno strato di couscous e uno di tortellini, uno di couscous…”. È solo una divertente storiella, ma fa capire quanto sia difficile andare alla ricerca di un’identità ‘pura’. E come sia pericoloso, anche se si tratta solo dell’identità di una città.
L’identità di Firenze è quella che costruiamo insieme tutti i giorni vivendo dentro la città, contribuendo al disegno del suo futuro. Le identità si costruiscono facendo un percorso assieme, a cui tutti siamo ancora chiamati. In fondo è il senso del gioco dell’antropologo James Clifford con l’omofonia tra le parole roots (radici) e routes (strade): le radici sono strade.