La famiglia mafiosa Cannizzaro-Daponte-Iannazzo aveva ordinato l'omicidio del fotografo, perché quando era un carabiniere ausiliario a Tivoli aveva fatto arrestare un soggetto legato alle cosche, Raffaele Rao
Sono stati necessari 20 anni per fare luce sull’omicidio di Gennaro Ventura, il fotografo di Lamezia Terme ucciso a colpi di pistola nel 1996: il corpo fu gettato in una vasca per la fermentazione del mosto all’interno di un casolare agricolo abbandonato in contrada Carrà Cosentino. Su richiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, guidata dal procuratore Nicola Gratteri, il gip Giovanna Gioia ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Domenico Antonio Cannizzaro, detto Mimmo, accusato di essere il mandante del omicidio.
I resti del fotografo furono trovati solo nel 2008 insieme alla sua attrezzatura fotografica. La famiglia mafiosa Cannizzaro-Daponte-Iannazzo lo ha punito perché pochi anni prima, quando era un carabiniere ausiliario a Tivoli (in provincia di Roma), aveva compiuto il proprio dovere, facendo arrestare un soggetto legato alle cosche, Raffaele Rao, coinvolto in una rapina ai danni di un perito della Procura al quale era stata sottratta della droga che serviva per esami di laboratorio.
Poco dopo Ventura lascia l’Arma e torna in Calabria, a Lamezia Terme dove diventa uno dei fotografi più conosciuti. Ma la ‘ndrangheta non dimentica il suo passato da carabiniere. Non lo dimentica, in particolare, Mimmo Cannizzaro, cugino di Rao, che nel 1996 ordina al killer Gennaro Pulice di fare fuori Ventura. Con la scusa di un servizio fotografico, Pulice (all’epoca diciottenne) accompagna la vittima in una zona di campagna, presso un casolare abbandonato, e lo fredda con due colpi di pistola, occultandone il cadavere. Una scomparsa, quella di Ventura, di cui si occupa anche la trasmissione Chi l’ha Visto?, e che per 12 anni sarà trattata come un caso di “lupara bianca”. Almeno fino al 2008 quando un acquirente del pezzo di terreno che comprendeva il casolare, vide le ossa riaffiorare dalla vasca per la fermentazione del vino.
Da subito, Pulice e Cannizzaro furono indagati perché Ventura aveva annotato nella sua agenda l’appuntamento di lavoro con il suo carnefice ma le indagini si erano concluse con un’archiviazione per mancanza di prove. Un omicidio per il quale Cannizzaro era sicuro di non essere più scoperto. La svolta arriva nel 2013 quando si pente il killer della cosca Cannizzaro-Daponte-Iannazzo. Pulice racconta tutto al pm Elio Romano e al procuratore aggiunto Giovanni Bombardieri e le sue dichiarazioni forniscono il riscontro necessario ai verbali redatti da un altro collaboratore di giustizia, Pietro Paolo Stranges.
“L’incarico dell’omicidio mi è stato dato da Mimmo Cannizzaro – dice Pulice – Il Ventura appunto partecipò all’arresto di un parente, di un cugino dei Cannizzaro che si chiama Rao, se non mi sbaglio, Raffaele. Mimmo Cannizzaro si segnò l’offesa e colse il momento giusto per vendicarsi. Mi disse che era una persona che doveva essere eliminato perché aveva fatto questo, questo, questo e quell’altro. Io quindi mi feci dare la pistola e organizzai l’omicidio. Io sono l’unico esecutore, ma nessuno era stato messo a conoscenza. Tranne con chi ho organizzato comunque il delitto, tranne Mimmo Cannizzaro che è il mandante”.