L’Onda Pride travolge ancora. Dopo il successo di Roma (700.000 partecipanti) e di Palermo (50.000 persone) e i numeri di tutto rispetto della settimana scorsa nel nord e in Toscana (con ben 30.000 presenze a Firenze) ieri è toccato a Milano (200.000 presenze), Bologna e ai centri del centro-sud, quali Caserta, Latina e Cagliari. Intanto a Perugia l’associazione Omphalos Arcigay Arcilesbica sin da venerdì 24 giugno ha popolato le vie del centro e i Giardini del Frontone con il suo Pride Village con dibattiti, incontri e proiezioni di film insieme alla presenza di una città interamente partecipe all’evento del capoluogo umbro.

Al di là del relativismo dei numeri, sempre sfuggenti – ma basta esserci stati per capirne la realtà impetuosa, la bellezza di quelle piazze e dei cortei, il gioioso coinvolgimento della gente che abbandona le sue occupazioni per unirsi alla festa di strada – il dato che emerge è quello di una vittoria sul piano culturale da parte della comunità Lgbtqi del nostro paese. Vittoria tanto più importante se si pensa che è il frutto di una lotta di minoranza, per cui niente affatto scontata. Cercherò di spiegare, più nel dettaglio, cosa intendo dire a tale proposito.

Roma è un pride che ha e avrà sempre rilevanza nazionale. Una delle poche manifestazioni capaci di muovere persone da tutto il territorio italiano per sfilare, in quel giorno di giugno, non solo obbedendo alle grammatiche della gioia (a noi piace confrontarci così) ma anche riconoscendosi in messaggi dalla forte caratterizzazione politica, come il “Chi non si accontenta, lotta” di quest’anno. Paradossalmente, le rivendicazioni della piazza romana, che riflettono quelle della comunità Lgbtqi nazionale, suscitano reazioni piuttosto imponenti come alcuni Family day: questi però sembrano nascere più come reazione alle istanze di uguaglianza di cui ci facciamo portatori e portatrici, non certo come proposta politica costruttiva e democratica (aspetto che, per altro, ne ha determinato il fallimento). In questo, Roma ha da sempre veicolato un sentimento nazionale che si traduce in proposta politica. La legge sulle unioni civili ha provato a intercettare le richieste di quella piazza, riuscendoci in modo goffo e parziale. Ma un passo è stato fatto. Il primo, per quello che ci riguarda.

I pride dell’Onda, in secondo luogo. Pian piano sono diventati centri nevralgici di irradiazione di istanze egualitarie che insieme al corteo della Capitale tengono alta l’asticella della rivendicazione. Rappresentano, in altre parole, una sinergia di forze che ha il merito di non ridurre la lotta del movimento come mera prova muscolare laddove ci sono i palazzi del potere, ma che ripropone quelle stesse richieste di allargamento del diritto e di rinnovato civismo anche dentro il cuore pulsante delle altre città, piccole e grandi, creando accoglienza e apertura verso le differenze. L’Onda agisce esattamente su questo piano, fornendo una struttura formidabile di amplificazione della rivendicazione. E questo è un passo avanti importante nella strategia politica che si è scelto di perseguire, che va – se mi è permesso dirlo – al di là delle più rosee previsioni di chi l’ha messa in atto.

Ne consegue, quindi, il mutato rapporto con il territorio. Portare il pride in provincia e nei centri più piccoli ha fatto in modo che la realtà Lgbtqi sia vissuta come alternativa dell’essere, come variante di ciò che la natura (sì, proprio lei) e la cultura (ricordiamolo sempre) hanno previsto dentro quel caleidoscopio che chiamiamo umanità. A Perugia, per fare un solo esempio, ciò è quanto mai evidente. Lo vedi dalla risposta della società, dal suo esserci materialmente. Le bandiere rainbow sono esposte nei negozi, si partecipa attivamente alle iniziative della manifestazione. Lo vedi negli abbracci che nascono dal riconoscersi, dopo un processo di elaborazione comune (e in questo Omphalos ha lavorato bene) e quindi nel conoscersi. Vicendevolmente. E credo che si possa dire lo stesso per molte altre città in cui le nostre “feste dell’orgoglio” sono diventate parte del tessuto culturale e politico comune.

In questa osmosi identitaria, che non toglie niente alla ricchezza e alla complessità di chi la esercita – e si rassegnino le cassandre del “gender” – risiede la vittoria culturale della nostra comunità, e si badi: non parlo solo della gay community. Una società che non perde pezzi di sé è più ricca, socialmente più forte e stabile, si cementifica attorno a valori di solidarietà, reciprocità e democrazia vissuta. Ciò non toglie che le forze del regresso – quelle che hanno come sponsor un Gasparri o un Giovanardi qualsiasi, per intenderci – hanno ancora molte cartucce da sparare contro di noi, e questo ci deve rendere sempre vigili. E ciò non deve far adagiare sugli allori un movimento politico, quello Lgbtqi, ancora caratterizzato da strategie incerte e da quei particolarismi che andrebbero rimossi una volta per tutte, inaugurando una stagione nuova basata sì sul riconoscimento delle singole identità, ma in direzione di un progetto comune su cui costruire un consenso larghissimo. L’Onda sembra andare in questa direzione. Per ora godiamoci la festa e i pride che verranno. A partire da settembre, la riflessione sarà d’obbligo.

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