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Brexit, per la ricerca e l’alta formazione resta l’incognita

Mi spiace che il Regno Unito ci molli. Nel 1963 ho comprato a Londra il mio primo 45 giri dei Beatles a 4 tracce. Conteneva anche Twist and shout, l’unico pezzo del loro primo LP che non fosse scritto da loro; forse per questo, era l’unico apprezzato da mio padre. Ho bazzicato l’Imperial College quando nelle stanze d’affitto del quartiere c’era ancora il contatore ‘a corona’ e la prima notte rimasi al buio perché non avevo la moneta da una corona da ficcare nel contatore, un minuscolo juke-box; né avevo capito che cosa fosse una corona, che valeva 5 vecchi scellini; o 25 pence dopo l’introduzione del sistema decimale. In Europa, l’idrologia è nata nel Regno Unito con l’Institute of Hydrology, poi ‘riformato’ da Thatcher e Blair; ma prima del loro avvento, l’IH ha fatto la storia di tutti noi idrologi. Furono i colleghi inglesi a candidarmi come presidente della European Geophysical Society 25 anni fa. E sono nato nella città più ‘british’ d’Italia.

Ricerca scientifica e alta formazione sono uno degli elementi più sensibili alla Brexit. Una rivista scientifica prestigiosa, Nature, scrive che la Brexit è un risultato che la maggior parte degli scienziati non avrebbe voluto, così come indicava in modo plebiscitario un suo sondaggio del marzo scorso tra i ricercatori inglesi. E anche Science riporta la stessa forte disapprovazione. È anche una questione di portafoglio, poiché tra il 2014 e il 2020 l’Unione Europea ha stanziato 120 miliardi di euro per la ricerca. Dal 2007 al 2013, il Regno Unito ha contribuito per circa 5,4 miliardi di euro alle attività di ricerca e sviluppo dell’Unione. Nello stesso periodo ha ricevuto più o meno 8,8 miliardi in finanziamenti diretti della Ue per la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione.

Al successo inglese, che dà lavoro non solo agli inglesi ma a una moltitudine di studiosi europei e non che con questi soldi vengono attratti nel Regno Unito, contribuiscono molti fattori, dalla padronanza della lingua madre alla rivoluzione manageriale dell’università e della ricerca, in quel paese più avanzata che altrove. E la rivoluzione manageriale, che da vent’anni stravolge il nostro mondo in ossequio a un modello di business, ha fatto molta strada a Brussels, diventando paradossalmente il modello europeo di riferimento. Al pari della lingua inglese che in formato globish (o pidgin-english) è la lingua con cui gli europei parlano tra loro. Qualcosa di simile alla lingua dei pellerossa nei western-spaghetti.

Nessuno può fare previsioni serie sulle conseguenze del Brexit in campo scientifico. Ai tempi di Marconi, irlandese da parte di madre e perciò cittadino inglese, la rivalità tra l’isola e la penisola era assai più vivace di oggi, ma ciò non privò lo scienziato della possibilità di lavorare qui e là con profitto per l’umanità. Il futuro non è più quello di una volta, ma evitiamo di piangere sul latte versato e guardiamo avanti. E senza il fiato neoliberista del Regno Unito sul collo, forse la Ue rivedrà il modello ‘commerciale’ dell’università e della ricerca che parecchi studiosi oggi contestano. Per molte, buonissime ragioni.

Vari editorialisti, compreso parecchi scienziati, hanno bollato come anti-democratico il referendum, paragonato a un voto sulle tasse, dall’esito scontato. Una cosa sono le tasse, fondamentali per la convivenza di una nazione, altra la Brexit: il voto per l’auto-determinazione di un popolo. Un referendum consultivo, così come lo era stato quello del 1975 sull’ingresso nel Mercato Comune Europeo, il papà della Ue. Se il risultato di allora era piaciuto, bisogna accettare anche quello di oggi.

La politica inglese prende sul serio i risultati dei referendum, poiché il Regno Unito è una democrazia consolidata. In Italia, l’amministrazione milanese ha snobbato ben 5 referendum consultivi del 2011 che avevano espresso indirizzi precisi a maggioranza bulgara. Per non parlare di quelli abrogativi (finanziamento pubblico ai partiti, acqua pubblica, agricoltura…) disattesi a scala nazionale. Giù il cappello, perciò, al coraggio e alla coerenza con cui gli inglesi stanno affrontando questa prova, al ritmo di Twist and shout. E mi procurerò di nuovo qualche corona se, a Londra, vorrò leggere di notte. O mi porterò una candela da casa.