Nel 1956 – avevo 18 anni ed era l’anno in cui i carri armati sovietici soffocarono la rivolta dell’Ungheria – mi iscrissi al Partito socialista italiano. Negli anni dell’Università sono stato uno dei “Cinquantottini” (è il titolo di un recente libro di Vittorio Emiliani, edito da Marsilio) impegnati in politica.
Personalmente, non ho scelto la politica come “professione”, ma ho cercato di trovare sempre un po’ di tempo per essere “un militante”, con i Socialisti e con i Radicali, soprattutto nel campo dei diritti civili. Ho avuto un minimo di ruolo, in particolare, nelle battaglie per le “riforme di struttura” del primo centrosinistra ed in quelle che ci hanno dato il divorzio, l’aborto e tanti altri diritti civili.
Anche nel mio lavoro (comunicazione e relazioni esterne) non ho mai accettato di assistere passivamente alle cose che non andavano. Mi sono sempre impegnato – all’Iri e, molti anni dopo, alla Rai – contro gli errori e la disonestà dei vertici aziendali, in tutti e due i casi pagando un prezzo per le mie scelte politiche e morali.
Ho sempre criticato le persone che vedevano crescere attorno a sé inefficienza e corruzione ma, pur restando personalmente oneste, non prendevano mai – per quieto vivere e per scetticismo – una posizione netta, nelle sedi di partito, nei sindacati, sui giornali. Penso ai funzionari di banca che assistevano in silenzio alla massiccia fuga di capitali all’estero. “Tanto – mi dicevano se li invitavo a denunciare la cosa – non serve a niente”. O a tanti altri, in particolare impiegati statali, che assistevano indignati, ma senza muovere un dito, alle imprese di quelli che oggi chiamiamo “i furbetti” e dei quali ridiamo come di un fatto di folclore mentre li vediamo firmare in mutande il cartellino.
Le persone oneste (di questo sono profondamente persuaso) rappresentano una maggioranza potenzialmente capace di sconfiggere o quanto meno di rendere la vita difficile ai disonesti che sempre più si vanno affermando come classe dirigente a tutti i livelli del Paese.
Nei giorni scorsi ho compiuto 78 anni: 78 è l’aspettativa media di vita dei maschi italiani, per cui dal 12 giugno mi sento un po’ come un immigrato irregolare, che prima o poi sarà tolto di mezzo.
Per questo, pur continuando le mie piccole battaglie, vorrei cercare di aprire una riflessione sul crescente distacco degli italiani dalla politica: causa non secondaria del degrado dei partiti e del dilagare della corruzione e della pessima amministrazione. Sono amareggiato nel vedere che quasi tutti i giovani che conosco non trovano un modo per impegnarsi in politica. Tutto sommato, sono meno rari i casi di “vecchi” che si impegnano se non in politica almeno nelle tante forme di volontariato. Trovo rovinosa – e infondata – la convinzione che “tanto sono tutti uguali”. Resto allibito vedendo tanti amici per bene che non vanno a votare “per far dispetto a Renzi”, regalando il governo di grandi città a un partito dai connotati non chiari e per molti aspetti inquietanti.
Capisco bene la difficoltà di fare politica nei partiti, organismi sempre più esangui e impenetrabili. Ma ci sono tanti altri modi per dare un contributo alla res publica. Dai sindacati alle organizzazioni benefiche, dalle associazioni civiche a livello cittadino fino alle realtà più consistenti come la Associazione Luca Coscioni, nella quale sono impegnato da anni. E non è vero che esse non ottengono alcun risultato. E’ vero invece che oltre ai risultati specifici che sono la loro ragione sociale esse riescono anche a condizionare la politica, come dimostrano due successi dovuti in buona parte al nostro lavoro: la legge sulle unioni civili; un primo superamento del supremo tabù della eutanasia, che per la prima volta siamo riusciti a portare al dibattito del nostro pigrissimo Parlamento.
Mi rendo conto che “i vecchi” sono stanchi e i giovani incontrano, innanzitutto nel lavoro, difficoltà ciclopiche che la mia generazione non ha conosciuto. Ma qualche ora alla settimana o il contributo di pochi euro a chi lavora anche per il loro futuro non sono una richiesta impossibile.
Mentre guardo con sgomento a un mondo di astenuti, mi chiedo: perché non ne discutiamo?