“Chiamami Mohammed. Tanto per voi siamo tutti uguali. Se sei musulmano, oggi, sei musulmano e basta. Violento e ignorante. Tutto il resto, la tua storia, la tua vita, non conta. Se sei musulmano sei sporco e basta”. Mohammed, in realtà, è l’ultimo nome che gli avrei associato: non fosse altro perché siamo a Sarajevo, è biondo, e mi aspetta al caffè Tito, un caffè che sembra un centro sociale: birra e musica dei Blur. Ha una felpa con il cappuccio e un libro di Asimov, e delle New Balance blu elettrico. Sembra appena tornato da una partita di calcetto. Invece è appena tornato dalla Siria. Mohammed ha 26 anni, ed è uno dei 330 bosniaci che si sono arruolati nell’Isis. O forse no. Forse non è negli elenchi dell’Europol, perché è di uno dei tanti gruppi affiliati all’Isis che però formalmente non sono Isis, e perché le statistiche, comunque, sono solo indicative, nessuno sa davvero i foreign fighters quanti siano: nessuno sa neppure chi siano.
Perché il califfato, è vero, in teoria è universale e abbatte con le ruspe le vecchie frontiere, ma poi è profondamente influenzato dai contesti nazionali. Se in Siria l’Isis è per tanti (ancora) il male minore rispetto ad Assad, in Iraq l’Isis è essenzialmente la voglia di rivalsa dei sunniti, prima al potere con Saddam e ora emarginati dalla maggioranza sciita. E se in Libia è questione di milizie e tribù, pochi chilometri più in là, in Tunisia, è questione invece di povertà, e si parte per Raqqa come un tempo per Lampedusa: in cerca di lavoro. Il califfato si pretende universale: ma poi cambia di paese in paese. Di jihadista in jihadista. E così, il Mohammed che ho davanti è tutto tranne che simile agli altri Mohammed che ho incontrato. La Bosnia ha 3,8 milioni di abitanti, per metà musulmani, e in alcune piccole comunità si applica illegalmente la sharia.
Husein Bosnic, il più noto reclutatore europeo di jihadisti, è di Sarajevo. Da qui sono arrivate le armi per gli attacchi di Parigi. Ma la vera guerra di Mohammed non è la Siria: è nato nel 1990. “Ho un ricordo vago di mia madre”, dice. “Fu uccisa da un cecchino che io avevo tre anni. E mio padre non so. Sono cresciuto con la madre di mia madre, una donna minuta, che parlava da sola. Sempre vestita di nero. Mio padre era un tipografo. Poi è diventato un alcolista. Diceva che era colpa mia. Che ero un bambino viziato, che quel giorno volevo a tutti i costi della cioccolata. Che mia madre altrimenti sarebbe rimasta a casa. Appena ho potuto sono andato via. Però credo sia ancora vivo”, dice. “O forse no”. Studiava, più o meno. Ma poi ha avuto un po’ di problemi con la legge. Un paio di risse, un furto. E ha deciso di andare in Siria. “Perché mi impasticcavo tutto il tempo. Perché stavo diventando come mio padre”.
Un terzo dei 330 bosniaci dell’Isis ha precedenti penali. La guerra, qui, è finita nel 1995 con gli accordi di Dayton che, dopo 100mila morti, hanno cercato un difficile equilibrio tra le etnie. La Bosnia è ora divisa in due entità, la Federazione Croato-Musulmana e la Repubblica Serba. Ha 5 presidenti, a rotazione, uno nuovo ogni otto mesi; ha 3 parlamenti, 3 governi, 136 ministri e 127 partiti. La caccia ai jihadisti è affidata a 22 diversi corpi di polizia. Il tasso di disoccupazione è al 43 percento, e la disoccupazione giovanile è la più alta al mondo: 63%. “E comunque, anche se lavori, è inutile. Non campi”, dice Mohammed. “Uno stipendio medio è 450 euro. Che futuro hai, qui? Non hai neppure un presente. Volevo ritrovare un percorso, una direzione. Ma non è una cosa mistica. Alla fine sono andato in Siria per la tua stessa ragione. Vogliamo entrambi fermare questa guerra, no? Vedevo tutti quei ragazzini in televisione, in mezzo al sangue, e pensavo: anche io sono stato così. Non voglio diventino come me. Solo che tu credi alle parole, io ai fatti”.
I bosniaci che hanno scelto l’Isis sono di due tipi. I cinquantenni, o quasi, veterani delle guerre dei Balcani, usati come addestratori, e i loro figli, più o meno, ragazzi cresciuti tra le macerie della Jugoslavia. Tra eroina e povertà. Mohammed, però, non ha scelto l’Isis, ma un altro gruppo jihadista. “In realtà, dipende da chi conosci”, dice, “perché vieni ammesso su presentazione. Quindi è abbastanza casuale. Ma comunque non avrei scelto l’Isis. Nell’Isis comandano gli iracheni, uomini degli anni di Saddam. Troppi giochi di potere. Troppi regolamenti di conti, troppe eredità del passato. Mentre questo secondo me è il momento di costruire”, dice. “La priorità, ora, è la sharia”. Cosa che per Mohammed significa, al fondo, rispetto dell’ordine. Inteso come rispetto dell’autorevolezza però, più che dell’autorità.
“Una società senza regole non può funzionare. Una società in cui ognuno è libero di decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato, in cui ognuno è Dio di se stesso: non può funzionare perché così, in realtà, prevalgono le regole invisibili. Le regole dei più forti”. “L’infedele”, dice, “non è un non credente, ma un miscredente: ed è la cosa più pericolosa”. “Perché tu pensi di non avere religione, di non credere in niente. E invece credi nel mondo così com’è”. E il mondo così com’è, dice, “per me non ha spazio”. “La mia bussola è il Corano. Il Corano si studia, si interpreta, si applica. Non si recita: non è vero che stiamo lì inginocchiati a ripetere frasi di cui non comprendiamo il senso. Il Corano si studia. Perché governare, governare una società come la propria vita, è questione di saggezza, di riflessione: non di numeri. E Hitler allora? Non fu eletto dalla maggioranza dei tedeschi? Milosevic? Potessero, i serbi voterebbero ancora oggi per sterminarci tutti. Perché dovrei credere nella democrazia? Non è un momento facile, ma non siamo in crisi. Per niente. Perché non sono in crisi le nostre ragioni. Anzi, più siamo sotto attacco, più diventa chiaro cosa significa vivere in un mondo senza valori. Un mondo allo sbando, in cui tutto è permesso. Più gli Assad sono forti, più siamo forti noi“. “E comunque questa intervista è una perdita di tempo”, dice Mohammed. “Tanto so perfettamente che secondo te sono uno che ha problemi. Ma chi è che ha più problemi, uno che prova a fermare una guerra o uno continua a prendere il sole mentre i bambini gli muoiono in spiaggia? Quello che ha bisogno dello psicologo, qui, non sono io“.