Le hanno chiamate con nomi diversi: prima era il “riformismo”, poi è arrivata la “rottamazione”, adesso c’è anche il “trumpismo”.
Tutte queste linee politico-programmatiche hanno avuto in comune, ufficialmente, l’avvio di nuovi percorsi politici presentati come idonei a rilanciare economie fiaccate dalle varie crisi che si succedevano sempre più frequentemente e rapidamente fin dagli anni ’80, ma hanno avuto come risultato reale solo il fallimento della linea precedente e la facile individuazione della causa nell’incapacità dei politici che in precedenza erano alla guida della nazione.
In realtà però nessuna di queste linee ha mai contenuto veramente riforme capaci di raggiungere i risultati promessi, ognuna conteneva soltanto promesse di risultati che non potevano con quelle riforme essere ottenuti e nascondevano nel contempo un obbiettivo che era praticamente inconfessabile, quello cioè della scalata al vertice del potere esecutivo.
Si tratta perciò in sostanza di una nuova forma di populismo ammantato di pragmatismo, ovvero di “pragmatismo populista politico”.
Questo tipo di neo-populismo, che può assumere qualsiasi forma e colore politico (come dimostrano gli esempi che descriverò tra poco) può premiare per un po’, ma non per sempre. Presto o tardi il popolo si sveglia e reagisce, proprio come ha fatto nei giorni scorsi con Cameron, le cui promesse di uscire dalla crisi attraverso una severa politica di austerity erano di fatto irrealizzabili già a giudizio di ogni serio economista, ma lui le ha usate, incluso la promessa di far svolgere il referendum per l’uscita dall’Ue, al solo scopo di restare in sella alla sua posizione di potere.
Anche Renzi promette di risolvere la crisi italiana tramite riforme, come l’Italicum e il Jobs Act, che non contengono quasi nulla per arrivarci. Il Jobs Act dà solo la libertà di licenziare e qualche soldo alle imprese (soldi che potrebbero cessare già dal prossimo anno per mancanza di fondi). L’Italicum è assolutamente ininfluente sul piano economico. Serve solo ad aumentare i poteri del governo e, soprattutto, del primo ministro che, comunque, continua anche a ricoprire l’incarico di segretario del partito di maggioranza, controllando così anche quel poco che resta di un Parlamento ridotto a una sola Camera.
Trump, il miliardario americano dei palazzi e delle case da gioco (che qualcuno ha già ribattezzato “Trumpusconi”), ha vinto il mese scorso le primarie americane del partito repubblicano promettendo di tutto a tutti: riduzione delle tasse, posti di lavoro, rimpatrio immediato dei clandestini, guerre valutarie con i cinesi ecc. ecc. Ha promesso agli americani tutto quello che ogni fascia della popolazione vuole sentirsi promettere, sfoderando un pragmatismo populista perfetto. Ora solo la democratica Clinton potrà fermarlo alle elezioni generali di novembre, ma non sarà un compito facile nemmeno per lei.
Tutti questi leader, che sono (o stanno per arrivare) al top della politica dei propri paesi hanno usato lo stesso strumento politico per vincere: quello del pragmatismo populista perfetto. Infatti ciascuno di loro ha individuato questa strada non allo scopo di avviare veramente utili riforme per il paese, (impossibili con quei programmi) ma solo allo scopo di conquistare o mantenere la massima poltrona esecutiva del proprio paese.
Eppure dovrebbe essere risaputo che chi fa una politica allo scopo prevalente di essere eletto non fa una politica nell’interesse del popolo, ma soltanto nell’interesse di se stesso, sconfinando quindi nel populismo deteriore.
Profittando del fatto che la maggioranza del popolo capisce niente di queste cose, promettono la soluzione dei problemi allargando le liberalizzazioni, le privatizzazioni, la globalizzazione, quando l’unico modo (per le ricche economie occidentali) per uscire veramente dalla crisi sarebbe un serio freno a queste sciagurate politiche, almeno in via provvisoria, per praticare qualche buona nazionalizzazione insieme a buone dosi di prudente autarchia.
Questa non è nostalgia del passato, è pura e semplice ciambella di salvataggio per il presente, ed è proprio quello che ora sarà comunque costretta a fare la Gran Bretagna dopo l’esito del Grexit.
L’economia di un paese può crescere solo se la produzione della ricchezza avviene all’interno del paese stesso, che produce ed esporta aumentando la ricchezza interna.
Con la globalizzazione avviene invece l’esatto contrario.
In una democrazia che pratica concretamente (ma senza eccessi!) il libero mercato, l’impresa per competere deve pensare esclusivamente al proprio interesse. Allo Stato compete però il dovere di creare il giusto equilibrio tra i diversi interessi delle imprese, dei lavoratori e dei cittadini, quindi deve, tramite la leva fiscale e le normative interne creare le barriere utili a garantire un reddito minimo ai cittadini e nel contempo scoraggiare le delocalizzazioni. La politica avrà infine il dovere di creare partiti che rappresentino in modo trasparente (e sincero!) ogni interesse legale, per essere infine scelti dal popolo sovrano a governare.
Se invece di perseguire l’equilibrio degli interessi i leader politici continueranno invece a praticare questo pragmatismo populista autoreferenziale il risultato sarà disastroso per tutti.