Con gli arresti del 21 giugno scorso si continua nella Capitale a colpire gli attori del “sistema campi”, ovvero quanti hanno tratto profitto dalla gestione delle baraccopoli rom. Si tratta di imprenditori del sociale, funzionari della polizia municipale, dirigenti e impiegati comunali senza scrupoli che spartendosi mazzette e favori hanno messo su un modello quasi perfetto che per anni, sulla pelle dei rom, ha drenato denaro pubblico nei conti di privati. E’ la fase due di Mafia Capitale e a essa, ne siamo certi, seguiranno sviluppi nei quali verrà definitivamente svelato il “Modello Roma” che, partendo dall’assunto che le comunità rom sono un’emergenza da debellare, ha giustificato interventi con il beneplacito di una filiera compiacente di attori.

Nell’attesa l’intero Ufficio Rom di Roma, quello sopravvissuto agli arresti, è sotto inchiesta e una fetta dell’associazionismo romano che per decenni ha costruito il proprio bilancio su affidamenti diretti o bandi pilotati, pur parlando il linguaggio ipocrita della solidarietà e dell’inclusione, è alle corde. L’agonia dei due attori segna la fine del “Modello Roma” che però, come ogni cattivo esempio che si rispetti, cerca di replicarsi altrove penetrando con i suoi tentacoli in territori diversi: sui rom ci si guadagna e, per il fatto che sono “brutti, sporchi e cattivi” si è legittimati a farlo. La settimana scorsa, mentre la polizia della Capitale era impegnata a perquisire abitazioni e uffici degli arrestati, a Giugliano e a Barletta ci si è ostinati a trattare i rom come pacchi da spostare da un punto ad un altro della città. Perché il “Modello Roma” insegna che i rom sono come i rifiuti: basta ammassarli, per poi spostarli e spargerli e infine ammassarli di nuovo per muovere denaro. E’ la legge economica dello “scarto materiale” che vale anche quando lo si sostituisce con lo “scarto umano”. Entrambi, con il solo movimento, muovono flussi di denaro.

A Giugliano, in provincia di Napoli, il 21 giugno oltre 300 persone sono state costrette a lasciare le loro abitazioni nell’insediamento di Masseria del Pozzo, dove da tre anni vivevano in uno spazio assegnato dal Comune e nelle vicinanze di una discarica di rifiuti tossici. Solo una settimana prima alcuni rappresentanti del Comune avevano invitato le famiglie a trasferirsi sul terreno di un’ex fabbrica di fuochi d’artificio distrutta da un’esplosione del 2015. Si tratta di una boscaglia posta nella zona periferica dell’area industriale del Comune campano e le 75 famiglie, una volta trasferite, si sono imbattute in cumuli di rifiuti tossici, residui della lavorazione di fuochi d’artificio, rovi e sterpaglie.

Sulle teste di questo gruppo umano di persone disperate pendono 1.300.000 euro che qualcuno sarà chiamato a gestire. A tanto ammonta la cifra destinata a costruire il nuovo “eco-villaggio” che la Regione governata da De Luca intende costruire per loro. Lo farà giustificando una vita, quella condotta nel nuovo sito assegnato dal Comune, inadeguata dal punto di vista igienico e sanitario e incompatibile con qualsiasi percorso di inclusione.

E’ la filosofia del “Modello Roma”: sgomberare i rom, metterli in una condizione di invivibilità e poi giustificare la costruzione di nuovi ghetti su cui investire denaro pubblico. L’abbiamo già vista a Roma sotto le Giunte Alemanno e Marino, quando, per trasferire le famiglie da Casilino 900, La Martora, Tor de’ Cenci e Cesarina, si è attuata la medesima politica: si muovono i rom e con essi si spostano più o meno lecitamente milioni di euro.

Quello di Roma è un “modello” che può essere declinato in altri territori. Come a Barletta, dove nelle settimane scorse il Comune ha deliberato di destinare una frazione di terra di un bene confiscato alla criminalità per realizzare in campo sosta. Saranno sei i soggetti beneficiari per un costo di 100.000 euro. L’inclusione costerebbe molto meno ma per qualcuno sarebbe assai meno conveniente.

Ma certo. I rom rubano, non vogliono integrarsi, non vogliono mandare i bambini a scuola, sono culturalmente incompatibili con le regole sociali. Quindi trattiamoli come “rifiuti umani”: calpestiamo i loro diritti, spargiamoli nelle periferie delle nostre città, tra discariche e boschi, e poi raccogliamoli nuovamente per chiuderli dentro “pattumiere” chiamate “campi nomadi”. Tanto alla fine sapremo sempre su chi scaricare le colpe. Le pattumiere servono anche a questo.

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