Per il primo ministro turco Binali Yildirim la strage è riconducibile ai militanti di Daesh. Se la pista fosse confermata, si tratterebbe di una mossa messa a segno mentre Ankara cerca di ridefinire la sua strategia regionale: l'attentato arriva pochissime ore dopo l’intesa tra Ankara e Gerusalemme e pochissime ore prima del 2° anniversario della nascita di al Dawla al-Islamiyya, lo Stato Islamico, annunciata da Abu Bakr al-Baghdadi il 29 giugno del 2014
Califfo contro Sultano: ovvero l’Islam fanatico e terrorista contro l’Islam opportunista che ha appena fatto pace con Israele, che chiede scusa a Mosca, che cambia politica nei confronti della guerra in Siria, rinunciando al ruolo di capofila del mondo sunnita, piegandosi così ai desiderata di Washington. Per Soner Cagaptay, direttore del Programma sulla Turchia al Washington Institute for Near East Policy (Winep), l’attentato all’aeroporto Ataturk di Istanbul rappresenta una svolta nelle relazioni tra Ankara e l’Isis. “L’attacco mostra i segni distintivi dello Stato islamico, come dicono fonti sia del governo turco che di quello degli Stati Uniti”.
Se la pista fosse confermata, si tratterebbe di una mossa messa a segno dal Califfo mentre la Turchia cerca di ridefinire la propria strategia regionale, stretta e costretta dalle dinamiche russe, poiché Mosca vuole aumentare la sua influenza in Medio Oriente; dall’alleanza Nato; dal crescente dissenso interno contro l’autoritarismo sempre più soffocante del regime (il presidente Recep Tayyip Erdogan vuole riformare la costituzione per rafforzare il presidenzialismo); dalla pesante diaspora siriana; soprattutto, dalla destabilizzante guerra contro gli autonomisti curdi, che sta scombussolando i delicati equilibri ai confini con la Siria, l’Iraq e il turbolento Caucaso.
E’ più di un anno, ormai, che la Turchia è piombata in un vortice di violenze, di attentati, di scontri. Il Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), tramite la frangia estremista Tak (i Falchi della libertà del Kurdistan), ha ripreso stabilmente a combattere contro Ankara dal luglio 2015. Da quando la guerriglia è ripresa, 5.000 militanti Pkk e centinaia di civili hanno perso la vita, così come più di 500 tra soldati e poliziotti. L’esercito turco bombarda senza tregua, i centri di una decina di città curde (come Sur, Nusaybin, Cizre, Silopi, Sirnak, Yuksekum) sono ormai diventati cumuli di macerie. D’altro canto, gli attentati di matrice curda (sempre rivendicati) hanno per obiettivo militari e polizia ed avvengono nelle grandi città dell’ovest turco per vendicare le distruzioni delle città curde nell’est. Insomma, l’attentato di Istanbul si inserisce in uno scenario fluido, incerto, in movimento. Con l’opposizione turca che rimprovera Erdogan di avere messo la Turchia in pericolo per le giravolte nella politica siriana.
In questo senso, si può capire perché il Califfo stia andando in rotta di collisione con il Sultano: ormai è chiaro che i due sono rivali geopolitici, se così possiamo dire. La strategia della paura è l’ultima arma in mano al Califfo. Mentre il Sultano ha voluto chiudere con l’ambigua referenza che l’accompagnava, quella cioè di essere il protettore occulto dello Stato Islamico, accusa di matrice occidentale. L’attentato di Istanbul rimescola le carte? Non esattamente. Le mette in tavola. Nella logica del fanatismo jihad, Erdogan è ormai colpevole di tradimento. Colpevole di avere blindato i confini del sud est, con l’alibi di contrastare gli autonomisti curdi, frontiere colabrodo per l’osmosi clandestina dei militanti che consideravano la Turchia un comoda retrovia (a lungo utilizzata) e una via di smistamento verso lo Stato Islamico. Colpevole, Erdogan il Sultano, per aver ceduto alla realpolitik, all’economia globalizzata e alle lusinghe dell’Occidente.
Poi, c’è la componente orgoglio. Nonostante le sconfitte militari delle ultime settimane, sarebbe l’implicito messaggio recapitato ad Ankara ma non solo, l’esercito dei martiri sunniti colpisce quando e dove vuole. Detta così, in soldoni, potrebbe essere questa la sintetica e accomodante chiave di lettura del triplice attentato kamikaze all’aeroporto internazionale Ataturk, il terzo d’Europa, l’undicesimo nel mondo (60 milioni di movimento passeggeri nel 2015): i primi indizi, a detta dell’intelligence turca, porterebbero infatti dritto dritto all’Isis. Ipotesi ragionevole, alla luce di quanto abbiamo detto. L’attacco all’aeroporto, ad una prima e sommaria analisi, per la sua ampiezza, per l’obiettivo prescelto e il modo operativo dei terroristi, si distingue assai dai procedenti attentati in Turchia attribuiti all’Isis. Rivela un’organizzazione piuttosto complessa, di un livello superiore, simile a quella dispiegata negli ultimi attacchi rivendicati dallo Jihad in Europa, in particolare a Parigi nel novembre scorso, e a Bruxelles. Rivela che il Califfo vuole la caduta del Sultano, mostrando come siano fragili ed indifesi i meccanismi di sicurezza turchi.
La Cnn si chiede chi ci sia davvero dietro il massacro all’aeroporto Ataturk, tanto palese appare il mandante. L’emittente americana di solito ha ottimi agganci coi servizi Usa e quindi è lecito immaginare che la sua domanda sia il riflesso di ragionamenti non soltanto giornalistici: a chi giova la strage? Stupisce la tempestività del triplice attentato, compiuto pochissime ore dopo l’intesa tra Ankara e Gerusalemme e pochissime ore prima del secondo anniversario della nascita di al Dawla al-Islamiyya, lo Stato Islamico (detto anche Daesh), annunciata in pompa magna dal suo autoproclamato califfo Abu Bakr al-Baghdadi il 29 giugno del 2014, dopo i successi contro le forze siriane e irachene e la spettacolare conquista di Mosul. L’accordo turco-israeliano dicono sia stato favorito dalla diplomazia saudita in funzione anti-iraniana. Gallia Understrauss, specialista di Turchia presso l’Istituto israeliano di studi per la sicurezza nazionale, suggerisce uno scenario geopolitico abbastanza credibile: “Israele cerca sbocchi commerciali per le gigantesche riserve di gas scoperte in fondo al Mediterraneo, davanti alle sue coste. La Turchia vuole diversificare i suoi rifornimenti per ridurre la dipendenza nei confronti di Mosca”.
Ci si chiede come mai la rivendicazione non sia stata immediata, giacché lo Stato Islamico di solito amplifica le sue efferate imprese con proclami, documenti video, comunicati, dichiarazioni che sono diffusi tramite web. Così, come troppo strumentale appare la probabile enfatizzazione della faida sunnita da chi vuole vedere, nel conflitto asimmetrico dello Stato Islamico, ragioni principalmente di natura religiosa. Semmai, più che fondamentali sono fondamentalistiche. Pretestuose: nel lessico delle gerarchie arabe, infatti, il sultano è tradizionalmente una figura del potere secolare (l’etimo sulta significa forza, autorità), mentre il califfo indica il “Vicario”, cioè il successore di Maometto alla guida politica e spirituale della Umma, la comunità islamica. E la battaglia per determinare la leadership sunnita (in Siria, in Iraq) non ha senso, se si sceglie per avversaria la Turchia, e il suo poderoso sistema militare. Un suicidio. Per cui, torniamo alla domanda vera: a chi giova l’attentato così marcatamente Stato Islamico?