In che cosa consista il progetto a sostegno del sistema creditizio non l'hanno capito nemmeno gli istituti. Che hanno subito dichiarato di non averne bisogno. In realtà è evidente che un intervento è necessario, ma sulla capacità negoziale dell’Italia sorge più di un dubbio. Il timore è che la montagna partorisca un altro topolino
“Siamo pronti a fare tutto il necessario, se servirà, per garantire la sicurezza dei risparmiatori e dei cittadini”. Parole solenni, che fanno tornare alla memoria il “whatever it takes” con cui il presidente della Bce Mario Draghi salvò l’euro nel luglio di quattro anni fa. A pronunciarle con fare solenne, però, non è Draghi, bensì il premier Matteo Renzi parlando delle banche italiane alla Cnn. E la frase fa subito tutto un altro effetto. E’ tre giorni che da Palazzo Chigi e dal ministero del Tesoro filtrano indiscrezioni su un piano pubblico d’intervento a sostegno delle banche in deroga alle direttive Ue sugli aiuti di Stato. Si parla di ingresso diretto nel capitale, di una riedizione dei Monti-bond, di un intervento della Cassa depositi e prestiti, di garanzie, di un intervento mirato sulle sofferenze e di altro ancora. Si ipotizzano anche le più varie cifre: il professor Francesco Giavazzi dalle colonne del Corriere della Sera di domenica 26 giugno parlava di circa 40 miliardi di euro, altri giornali e commentatori si fermano a 20-23 miliardi. Per fare cosa? Ancora bene non lo si è capito e, soprattutto, non lo hanno capito nemmeno le banche.
Lunedì, nel bel mezzo della bufera borsistica post-Brexit che ha travolto per il secondo giorno di fila i titoli bancari, il direttore generale dell’Abi, Giovanni Sabatini, ha dichiarato senza mezzi termini che “a differenza di altri Paesi le banche italiane hanno la capacità e le potenzialità per affrontare questa crisi da sole”. Altrettanto esplicito l’amministratore delegato di Ubi Banca, Victor Massiah, che in riferimento alle indiscrezioni su un possibile intervento pubblico ha osservato: In presenza di risorse che sono scarse mi domando perché iniettare risorse in una banca solida come la nostra. Sarebbe una follia, a me sorprenderebbe”. Sulla stessa lunghezza d’onda l’amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, Carlo Messina, che martedì ha detto di non credere a un ingresso del capitale pubblico nelle banche, sottolineando come il sistema sia solido.
Le dichiarazioni di genuina sorpresa (e talvolta anche di fastidio) dei banchieri lasciano intendere un’altra verità, che poco a poco sta emergendo: un vero e proprio piano del governo non esiste, se non in via del tutto ipotetica. Quello che Palazzo Chigi sta facendo è semplicemente sondare il terreno sia in Italia sia in Europa per capire quali spazi di manovra si possono ottenere per raggiungere l’obiettivo di mettere in sicurezza il sistema ed evitare che continui a essere percepito dai mercati come l’anello debole della catena, quello sul quale si continua a picchiare. Come e con quali strumenti è una domanda del tutto secondaria, perché il nodo per il governo è capire se e cosa ci sarà concesso di fare.
Al di là della retorica sulla solidità delle banche italiane sparsa a piene mani in questi mesi sia dai banchieri, sia dal governo, è del tutto evidente che un intervento è necessario. L’enorme massa dei crediti deteriorati mette a rischio la stabilità del sistema, tanto più ora che in seguito alla Brexit lo scenario economico rischia di peggiorare drasticamente: alle vecchie sofferenze, infatti, se ne aggiungerebbero di nuove per effetto della crisi. Ma anche se le cose dovessero andare meglio del previsto, lo stock di crediti deteriorati continuerebbe ad agire da zavorra sui conti delle banche e da tappo all’erogazione di nuovi crediti. Intervenire e risolvere la questione è dunque interesse di tutti, almeno in Italia, anche se sul come e a quali condizioni ci sarebbe molto da discutere, perché di regali alle banche in questi anni ne sono stati fatti anche troppi. A Bruxelles c’è interesse a che l’Italia risolva il suo problema e c’è anche la consapevolezza che non è solo il sistema bancario italiano ad essere debole, come ha chiaramente sottolineato la Banca dei regolamenti internazionali (Bri) nel suo rapporto annuale.
La Brexit può rappresentare quindi l’occasione per sistemare un po’ di problemi, ma occorre farlo in un quadro di regole e di certezze anche per evitare di creare pericolosi precedenti. Come ha confermato il vicepresidente della Commissione Ue, Valdis Dombrovskis, tra Roma e Bruxelles sono in corso colloqui, ma non sembra che si possa arrivare in tempi rapidi a una soluzione di carattere europeo. Piuttosto, sembra di capire che si stia discutendo di possibili misure specifiche: “Stiamo monitorando la situazione da vicino – ha dichiarato Dombrovskis – e siamo in stretto contatto con le autorità italiane in merito a possibili passi. Ci sono diverse modalità di azione possibili che sono ancora oggetto di discussione e per questo non posso aggiungere dettagli”. Forse questa volta, grazie alla Brexit, non sarà un dialogo tra sordi, ma sulla capacità negoziale dell’Italia sorge più di un dubbio, suffragato dagli scarsi risultati ottenuti in questi anni, con ad esempio la mancata esclusione dal “bail-in” delle obbligazioni bancarie emesse prima dell’entrata in vigore della direttiva. E il timore è che ancora una volta la montagna gonfiata dalla grancassa mediatica partorisca un topolino.