Tra le tante crepe aperte dal pasticciaccio brutto del Brexit ce n’è una che crea non pochi problemi al Movimento Cinquestelle, reduce da un convincente successo nelle elezioni amministrative di domenica 19 giugno. Infatti gli esiti di Roma e Torino sembravano aver chiuso la partita con Renzi. Quanto costituiva l’effettiva – seppure implicita – posta politica in gioco della consultazione; tradotta nella conquista di un profilo istituzionale ricco di interessanti prospettive, sia per il referendum ottobrino come per lo show down elettorale previsto nel 2018 (o forse prima ancora). Soprattutto era stata superata a pieni voti la “prova affidabilità”; specie in area sabauda grazie a Chiara Appendino, la cui elezione confermava il forte radicamento nel territorio e – soprattutto – un’apprezzabile indipendenza rispetto allo Staff milanese e alle sue inquietanti pretese da supervisore occulto.
Insomma, una legittimazione a governare messa a rischio dalle imbarazzanti frequentazioni fuori confine e i lasciti di una lunga propaganda antieuropea che ha sedimentato nei criteri di giudizio di buona parte dei quadri M5S. Per dare un nome e cognome, Nigel Farage con il suo Ukip nuclearista e razzista. Eurofobo.
Nel frattempo gli smarrimenti del dopo 23 giugno, da parte degli stessi propugnatori del “leave”, evidenziavano a chiare lettere che la questione europea è molto diversa da come ce la raccontano i semplificatori faciloni del “torniamo all’Italietta, torniamo alla liretta”. Difatti, tra crolli della sterlina e traslochi annunciati (a Francoforte o Parigi) di multinazionali ad oggi residenti nella city, i britannici si rendono conto di aver scherzato con il fuoco. E che alla massiccia perdita di posti di lavoro andranno ad aggiungersi cancellazioni di vitali finanziamenti alla ricerca e alla sanità.
Soprattutto la presa d’atto, mentre ci si sveglia dal sonno ipnotico degli azzardi e delle semplificazioni, che nelle derive globali in atto gli appelli ai comunitarismi e alle piccole patrie sono suicidi prima ancora che patetici. Mentre si svelano gli intenti dei pifferai magici alla Boris Johnson, che hanno cavalcato il Brexit esclusivamente per irresponsabili intenti carrieristici. Ossia fare le scarpe al collega David Cameron; che non rimpiangeremo vista l’inettitudine dimostrata, sia come ricattatore nei confronti della Commissione di Bruxelles, sia come propugnatore del “remain”.
Insomma, una tragedia con involontari tocchi comici: l’aspirante premier Johnson inseguito dai suoi stessi elettori all’uscita di casa per poterlo insultare, come scriveva le Monde di domenica; la pagliacciata di Farange in gita a Bruxelles per farsi sbertucciare dall’assemblea e invitare ad andarsene da quel bel tomo di Jean-Claude Junker. Al tempo stesso costringendo i rappresentanti Cinquestelle a tributargli la solidarietà. Solidarietà a una macchietta che fa il fenomeno praticando il mestiere di sfasciacarrozze e riducendo la discussione sullo stato dell’Unione a rissa da pub. Con il bel risultato di passare in cavalleria il tema prioritario dell’idea stessa di Europa, smarrita a partire dal settembre 2008: l’esplosione della bolla finanziaria Usa, che convertì il Vecchio Continente a un’austerity di stampo NeoLib.
Per compiere definitivamente la loro legittimazione i 5S non possono che assumere con chiarezza la posizione eurodemocrat; liberandosi dagli inciampi creati dalla demagogia di Beppe Grillo e dal destrismo della Casaleggio Spa, che hanno portato all’abbraccio (mortale) con faccia di pongo Farage.
Operazione certo non facile, come traspare dell’imbarazzo di Alessandro Di Battista quando reclama lo spirito di Ventotene ma non osa prendere le distanze da chi tuttora viene considerato il gestore del bacino elettorale con cui si è eletti. Anche se dovrebbe far riflettere al riguardo il successo alle amministrative ottenuto senza la presenza ingombrante del fondatore; ormai calato sempre più nella parte del “vecchio zio scapestrato”, di cui i nipoti si affannano a contenere le mattane.