Ci sono parecchie cose che non convincono nella vicenda di don Mauro Inzoli, condannato questa settimana in primo grado a quattro anni e nove mesi per abusi su cinque minori.
Inzoli non è un prete qualsiasi. E’ stato per trent’anni uomo di punta di Comunione e liberazione in Lombardia. Tra i fondatori di un’iniziativa importante come il Banco alimentare, rettore al Liceo linguistico Shakespeare di Cremona e parroco della chiesa della Santissima Trinità. Delle cinque vittime per cui è stato condannato, i più piccoli avevano tra i 12 e i 13 anni. I più grandi tra i 14 e i 16. Cinque vittime non sono poche. Perché il tribunale abbia abbassato la pena richiesta dal procuratore (sei anni) è poco comprensibile. “Ci sono alcuni particolari terribili”, aveva sottolineato il procuratore Roberto Di Martino.
Ma è sul versante ecclesiale che si apre più di un interrogativo. I fatti giudicati in tribunale risalgono ad un periodo tra il 2004 e il 2008. Quando scoppiò lo scandalo e le autorità vaticane appurarono l’indiscussa verità delle accuse, papa Ratzinger dispose la sospensione a divinis di Inzoli. Sia Benedetto XVI che papa Francesco hanno ripetutamente proclamato tolleranza zero nei confronti dei preti pedofili. Tra il 2004 e il 2013 ben 884 preti responsabili di abusi sono stati svestiti dell’abito talare come risulta da un rapporto vaticano al comitato Onu contro la tortura, presentato nel 2014. Quali sotterranee pressioni (Cl non è certo la piccola confraternita di una sperduta parrocchia di provincia) hanno fatto sì che sotto il pontificato di Bergoglio la pena radicale sancita da Benedetto XVI sia stata addolcita e trasformata per Inzoli in pena perpetua ad una “vita di preghiera e di umile riservatezza come segni di conversione e di penitenza”, ridandogli però lo status sacerdotale?
Inzoli ha risarcito le cinque vittime con la somma di 25.000 euro ciascuna. Il fatto è che risultano altri quindici episodi di violenza sessuale. Episodi prescritti per la giustizia italiana. Tuttavia, una volta venuta alla luce la condotta pedofila del prete ciellino – considerato un personaggio “carismatico” a Cremona – il Vaticano ha svolto una sua indagine secondo le procedure ecclesiastiche (i cui risultati non sono stati trasmessi alle autorità italiane, che pure ne avevano fatto richiesta) e dunque la Santa Sede ha in mano tutti gli elementi per rendere giustizia alle altre vittime.
Quindici minori abusati non sono un dettaglio da trascurare, un danno collaterale da affidare al dimenticatoio. I traumi psicologici durano per sempre. E’ vero che sul piano della legislazione statale esiste la prescrizione, ma sul piano di una istituzione che si presenta come voce della morale non si può dire come la canzone popolare napoletana “chi ha avuto, ha avuto – chi ha dato, ha dato”.
La svolta di Benedetto XVI nel 2010 con la Lettera ai cattolici di Irlanda aveva chiarito – si pensava per sempre – che nei problemi di pedofilia all’interno della Chiesa cattolica le vittime sono assolutamente da considerare la questione centrale. Dunque non si può pensare che la Chiesa locale o un’associazione importante come Comunione e liberazione si lavino le mani e non pensino a risarcire anche gli altri quindici abusati.
La vicenda Inzoli (come altri simili casi, sepolti rapidamente nelle cronache dei giornali) ripropone la questione dell’atteggiamento generale della Conferenza episcopale italiana in tema di abusi. La posizione della Cei è finora tenacemente minimalista. I fatti imputati riguardano il singolo sacerdote, si dice. Il singolo vescovo locale è il referente delle vittime. Non c’è preciso obbligo di denuncia alle autorità giudiziari italiane, se un vescovo viene a conoscenza di misfatti. Non esiste una struttura diocesana con sacerdoti e psicologi, dove la vittima possa chiedere aiuto e segnalare abusi. Non esiste nemmeno un indirizzo mail. Non esiste un programma di risarcimenti. La Cei come tale non si assume nessuna responsabilità, neanche quella di pubblicare anno per anno (come avviene per esempio negli Stati Uniti) un rapporto pubblico sulle violenze nelle strutture ecclesiastiche.
Altrove, nell’Europa del Nord o nell’America settentrionale, sono stati creati punti di ascolto e di denuncia in ogni diocesi, ci sono programmi delle diocesi per risarcire le vittime, si aprono indagini sugli episodi nascosti del passato, ci sono organi di monitoraggio della conferenza episcopale nazionale. In Italia nulla di nulla.
Non è una situazione che può continuare. Lasciare che – per prescrizione o per mancanza di indagini sul passato, aperte autonomamente dalle autorità ecclesiastiche – centinaia di vittime rimangano prigioniere del silenzio e prive di conforto e di aiuto è esattamente il contrario della tolleranza zero predicata dagli ultimi due pontefici. Di più: è un modo classico di sabotare attraverso l’inerzia la riforma di impostazione fondamentale nei confronti dei minori violentati, auspicata a suo tempo da Benedetto XVI e ribadita più volte da Francesco.
Niente impedisce che un modo radicalmente nuovo di affrontare in Italia i problemi degli abusi nella loro dimensione pratica di cura di tutte le vittime (prescrizione o meno) parta da una conferenza episcopale regionale o persino da una singola diocesi. Milano ha una secolare tradizione europea. La sua “buona amministrazione” in campo civile guarda da sempre alle buone pratiche d’Oltralpe. Potrebbe essere la Conferenza episcopale lombarda a mettere in campo iniziative e strutture di solidarietà nel campo degli abusi. Perché le vittime non si prescrivono mai.