Dall'operazione "due mari", condotta dal Goa della Finanza e la Dea americana, emerge il giro milionario d'affari e la rete di traffici nei porti italiani: dalla Calabria alla Toscana
Tanti elementi di vertice, una sorta di direttorio di “colonnelli”. Senza un leader, flessibile, capace di adattarsi velocemente. I trust globali dei narcos – in grado di muovere migliaia di tonnellate di cocaina – appaiono come una rete apparentemente senza testa. Orizzontale. Tanti broker, veri e propri service chiamati come esperti dai finanziatori; batterie di corrieri e logisti, in grado di trovare la nave giusta e il porto compiacente; società di copertura utilizzate per gestire carichi transcontinentali di merce, utilizzata per mimetizzare i panetti di coca colombiana. Una holding, “ove ogni personaggio, dotato di autonoma operatività criminale e quindi di una propria organizzazione e ‘ndrina di riferimento, ha sempre agito in perfetta sinergia con gli altri membri del sodalizio”. Avere un padrino riconosciuto e riconoscibile alla fine è solo un rischio.
L’operazione “due mari” della Dda di Reggio Calabria, che si è coordinata con la Dea degli Stati Uniti e la Polizia colombiana, è l’ultimo spaccato del complesso sistema dei gradi traffici internazionali di droga. Le pagine del decreto di fermo (undici gli arrestati un Italia, che salgono a 33 con le custodie eseguite simultaneamente in Colombia) raccontano il noioso brogliaccio di Monsù Travet del crimine. Chat – spesso sgrammaticate o in uno spagnolo improbabile – sugli immancabili blackbarry; appuntamenti in bar fuori dai caselli autostradali; amicizie giuste nelle aree portuali. “Devo apparire come un semplice imprenditore”, spiegava un trafficante brasiliano un paio di anni fa in una intercettazione di una conversazione via skype. Niente atteggiamenti alla Scarface, tanta banalità per mascherare quella ferocia che appena si intuisce.
Cambiano i porti, per allontanare i sospetti dai carichi milionari di polvere bianca. Gioia Tauro – che pure mantiene il record dei sequestri di coca – vive la sua delocalizzazione, come ha spiegato durante la conferenza stampa conclusiva dell’operazione il procuratore di Reggio Calabria Cafiero de Raho. C’è l’esordio prepotente nelle cronache del porto laziale di Civitavecchia, dove il gruppo dei sospetti trafficanti arrestati dal Goa della Guardia di Finanza di Catanzaro faceva arrivare i container con il doppio fondo imbottito di cocaina. E c’è Livorno, scalo marittimo usato per l’arrivo delle partite di droga colombiana dirette nel Nordest, stoccate in magazzini di frutta alle porte di Venezia. Porti nuovi, per organizzazioni che mantengono legami – e teste – con radici antiche. Se i broker e i logisti erano laziali, gli investitori avevano piedi saldi sulle montagne della Calabria, dove comandano le ‘ndrine. Giuseppe Grillo, di Platì, e Franco Monteleone, di Locri, avevano il ruolo, per i gli investigatori, di stabilire “le linee programmatiche della associazione, assicurando il finanziamento della stessa, decidendo quali broker utilizzare per procurarsi la cocaina”. Ed era nella locride che i membri colombiani del gruppo rimanevano in soggiorno “forzato” durante le trattative, per garantire il buon esito delle operazioni. Il segnale, questo, della forza dei gruppi calabresi sul mercato mondiale della cocaina.
Tra i principali broker individuati nel corso delle indagini c’è anche un nome noto nel Lazio. E’ Enzo Pescetelli, considerato a capo di una organizzazione con base nei Castelli romani, già arrestato dalla Dda di Roma nel 2014 e raggiunto dal decreto di fermo di Reggio Calabria ai domiciliari, è ritenuto “principale promotore di importazioni di sostanze stupefacenti dal Sud America”. La sua specialità – raccontano le indagini – erano i viaggi di pietre imbottite di cocaina del Nicaragua. Nel 2013 individua lo scalo di Civitavecchia per un carico di 93 chili di cocaina, stipata nel doppio fondo di un container. Per un caso quella spedizione sfuggì all’organizzazione, partendo con un’altra nave per Panama, dove è stata scoperta su segnalazione della Guardia di finanza. Ed è qui che appare la duttilità della rete: non appena Pescetelli scopre di aver perso la cocaina subito organizza un nuovo carico, accordandosi con il calabrese Giuseppe Grillo. Velocità nelle decisioni e, soprattutto, i contatti giusti: “Faceva spola continua col Sud America, in particolare col Nicaragua, l’isola di Sant’Andres, il Costa Rica e la Colombia, dove si avvaleva di varie conoscenze per organizzare viaggi di importazione di sostanza stupefacente del tipo cocaina sfruttando la copertura della attività commerciale a lui riconducibile”, commentano i magistrati della Dda di Reggio Calabria nel decreto di fermo.
Sull’altra sponda dell’Atlantico la faccia delle reti dei trafficanti assumeva un aspetto decisamente più crudele. “Sono dei killer, sono pericolosi”, commentava in conferenza stampa James Allen, direttore regionale per l’Europa della Dea statunitense. La filiera colombiana l’hanno ricostruita gli agenti federali arrivati da Washington, che – seguendo le tracce dei broker italiani – sono arrivati ai cartelli di Bogotà e Cartagena. Sul lato latinoamericano la sicurezza dei carichi era garantita dall’Ejercito Liberazione Nazionale (ELN), organizzazione di stampo marxista riconosciuta come terroristica dal Dipartimento di Stato Usa. E mentre in Italia la Guardia di finanza eseguiva i fermi ordinati dalla Dda di Reggio Calabria, la polizia colombiana insieme alla Dea sequestravano 11 tonnellate di cocaina, scovando sette laboratori di raffinazione. I narcos dei “due mari” avevano i carichi già pronti. Bastava la nave giusta e i soldi delle famiglie della locride.