“La passione che proviamo è identica al primo giorno in cui ci siamo formati, quando il genere a cui siamo devoti, il Progressive, nel Belpaese veniva indicato col termine ‘Pop Italiano’ anche se, a differenza da allora, è aumentata progressivamente la consapevolezza delle nostre capacità sia tecniche sia musicali”, afferma Renato Gasparini, chitarrista di una delle prime band in Italia a dedicarsi alla musica Progressive, gli Agorà. Gruppo nato nelle Marche nel 1972, ha avuto la classica parabola dei gruppi di successo degli anni ’70, ritrovatosi nel dimenticatoio verso gli anni ’80 per poi risorgere negli anni 2000 come band di culto.
Infatti, nel 2002 si riformano in veste acustica, esibendosi dal vivo e lavorando alla pubblicazione di un nuovo lavoro discografico che però vede la luce solo 12 anni più tardi, intitolato Ichinen. Ma è nel 2015, col sodalizio artistico con Patrizio Fariselli (membro fondatore degli Area assieme a Demetrio Stratos), che decidono di ricominciare a fare sul serio, registrando Bombook, il nuovo disco, composto da 11 brani, “ispirato dalla lettura dei principi buddisti di Nichiren Daishonin e ne colgono la fiducia nella rivoluzione umana individuale, per creare valore nel rispetto della sacralità della vita e dell’ambiente”.
Gasparini, come nascono gli Agorà?
Abbiamo iniziato nel ’72 con una formazione che poi è rimasta la stessa per parecchi anni. Ci trovavamo a Serra San Quirico, nelle Marche, il posto che ci ha adottato e dove tutt’oggi facciamo le prove! Per un anno suonammo in saletta in modo costante; in seguito registrammo una demo e lo portammo a Milano per farla ascoltare a Claudio Fabi, il padre di Niccolò, che all’epoca era il produttore della Pfm. Gran musicista e compositore, lo ascolta appena tre minuti e subito ne è rapito. Mi dice di rivederci a Milano, in via Tortona, dove registrammo in diretta il contenuto del nostro primo album.
Dopo una decina di giorni mi chiama – all’epoca non c’erano i cellulari, ma il posto telefonico pubblico a San Quirico. Mi dicono che c’era un signore per me da Milano ed era Claudio – mi comunica che Claude Knobs, l’organizzatore del Montreux Festival, aveva ascoltato le nostre registrazioni ed era entusiasta. Voleva che ci esibissimo nell’ambito della serata “Euro Rock” assieme a Pfm, Perigeo e a un gruppo francese, i Magma. Da San Quirico a Montreux, fummo lanciati come con una fionda.
Fate quel concerto e l’Atlantic Records vi mette sotto contratto…
Il contratto, a dir la verità, lo avevamo già firmato, nonostante il genere Progressive, in quel momento, stava vivendo una parabola discendente.
Si svela così un arcano visto che altrove è stato detto, e scritto, che foste messi sotto contratto dopo quell’esibizione su richiesta della Atlantic.
Non andò proprio così, anche perché non avremmo potuto esibirci al Festival di Montreux senza avere un contratto. Dopo, infatti, iniziammo a esibirci con frequenza. Organizzammo anche una tournée che ricordo con molto affetto perché i nostri concerti venivano aperti da un giovane di gran talento: il suo nome era Rino Gaetano. Si esibiva da solo, voce e chitarra. Era ragazzo speciale, avevamo un ottimo rapporto, spesso veniva a stare a casa mia. Per me è stata una grave perdita.
Due anni dopo registrate il vostro secondo album.
Trascorremmo un mese a Milano registrando negli studi che si trovavano dietro il locale jazz Capolinea, dove all’epoca c’era un bel traffico di musicisti. Con il disco, che ebbe un discreto successo, vincemmo il premio della critica discografica.
Come mai decideste di chiamarvi Agorà?
Non avevamo un nome inizialmente. Poi, quando facemmo la prima riunione con la Atlantic-Wea, c’era con noi Cesare Monti, personaggio importante che ci aiutò a mettere a fuoco l’immagine per quella che sarebbe stata la cover dell’album e a scegliere un nome. Agorà intanto si pronunciava allo stesso modo sia in italiano che in inglese. Ci dava l’idea di democrazia, di dialogo, e dal punto di vista musicale, di apertura a ogni genere e confronto. Monti, che all’epoca era già tutto preso dal tema dell’ambientalismo, che in Italia era un argomento praticamente inesistente, realizzò la copertina del nostro primo disco, Live in Montreux, con un albero che si solleva… davvero una bella realizzazione.
Nei titoli delle vostre composizioni vi sono concetti che richiamano alla filosofia buddista.
È una cosa molto importante per me. Avevamo messo fine all’esperienza con gli Agorà per mancanza di fondi, le vendite in Italia erano scarse, avevamo venduto molto di più in Giappone! Avevo smesso di suonare nonostante fossi diventato professionista e avevo iniziato a lavorare con molti artisti. Dopo anni passati a esibirmi assieme a Edoardo Bennato, a un certo punto mi resi conto che avevo completamente abbandonato la mia musica. Era il 2002 e, quasi contemporaneamente, in quel periodo di riflessione iniziai a praticare il buddismo ed è stato in quel momento che mi è tornata la voglia di rimettere su il gruppo, integrandolo con altri elementi. Da allora non ci siamo più fermati.
E infatti siete tornati da poco con questo nuovo album intitolato Bombook.
Nel disco ci sono quattro inediti, Reset, Puro, Oak Ballad e Bombook, il brano che dà il titolo all’album. È una parola composta, Bomb + Book, e la copertina realizzata da Massimiliano D’Affronto ed elaborata assieme a Guido Bellachioma, ne rappresenta il pensiero, con questo bombardiere fatto di corpi umani, realizzato da una compagnia di danza, che lancia mongolfiere con a esse legati dei libri e nel momento in cui toccano terra tutto diventa di carta. Una pacifica bomba emozionale, perché la cultura trasforma l’ambiente. ‘Pace e cultura sono inseparabili, senza pace non può esistere cultura, quando la cultura fiorisce, la pace si sviluppa’. È questo il modo per fare una rivoluzione pacifica creativa. L’unica strada che andrebbe percorsa.