Le magagne progettuali vengono sempre più frequentemente alla luce, anche perché stiamo toccando il fondo. Ma i piani, le infrastrutture e le opere che interagiscono con rivi e versanti, fiumi e laghi, litorali e lagune hanno orizzonti assai lunghi. Così come gli asservimenti della natura, dai ponti alle strade, che formano il telaio su cui poggia lo sviluppo di un Paese. Essi traguardano tempi assai più estesi delle fluttuazioni di Borsa; e non sempre ci si accorge subito di errori e omissioni.
Le lacune di oggi si possono tramutare in gravi disastri nel futuro. La bassa qualità – culturale, scientifica e tecnica – è una mina a scoppio ritardato, un virus latente con cui il corpo del Paese si alimenta senza percepirne la pericolosità.
Ci sono ragioni interne, ben note, legate alla nostra attitudine collettiva a trascurare la competenza e il talento a favore di altre “virtù”. Questioni come la gestione dei fiumi Bisagno a Genova e Seveso a Milano, casi eclatanti come il lungolago di Como o il medio Tagliamento sono diventati archetipi a livello mondiale. La consolidata sottomissione di consulenti e tecnici produce un’acritica dipendenza dal committente, spesso pubblico, del tutto incomprensibile agli stranieri e, sperabilmente, ai posteri. Ha scritto Andrea Rinaldo: «Grande è l’incredulità dei colleghi stranieri per l’assunto tutto italiano consulenza = dipendenza che anima il dibattito tecnico. Sembra loro incredibile, in particolare, l’irrilevanza delle qualificazioni scientifiche per la credibilità delle tesi tecniche».
Ma ci sono anche cause esterne, come il predominate fattore finanziario che dirige qualunque progetto, soprattutto se di grandi dimensioni.
Nel contesto nazionale, la corruzione ha fatto nascere istituzioni specifiche di controllo. E questa verifica di onestà, in apparenza semplice ma ostica in pratica, è già compito da far rabbrividire, viste le clientele che dominano il Paese. Insomma, gli organi di controllo devono verificare soprattutto che nessuno rubi o faccia rubare, mica la funzionalità a lungo termine di un argine o di una scogliera che dovranno salvaguardare gli abitati con un orizzonte centennale.
A livello internazionale, anche organismi con una buona tradizione scientifica e tecnica come la Banca Mondiale o la Banca Interamericana di Sviluppo hanno difficoltà a valutare interventi complessi in realtà sfaccettate e contesti soggetti a rapida evoluzione. Anche se le multinazionali della consulenza si stanno attrezzando da tempo per fornire servizi adeguati, compare talvolta il convitato di pietra del conflitto di interesse. Altre volte rimane nell’ombra, perché invisibile o implicito; o magari declinato al motto di ‘cane non mangia cane’ (Canis canem non est).
Il consolidamento del sistema Europa in senso neo-liberista e l’adorazione militante per la ‘concorrenza’, che fu santificata dall’allora commissario Monti, avrebbero potuto comunque scalfire la consuetudine italica a considerare la qualità come un fattore accessorio. Invece non è accaduto. La furia competitiva ha infatti classificato consulenti e i tecnici tra i ‘fornitori di servizi’, il cui contributo va perciò valutato alla stregua dell’affidamento delle pulizie o del servizio postale. E nel caso dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria è disciplinato dall’art. 91 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE). Non sono esattamente i criteri con cui Ludovico il Moro chiamò a Milano Leonardo da Vinci, presentatosi con un’accattivante lettera di auto-raccomandazione a base di drenaggi, ponti e bombarde, ma che si chiudeva con un frase rassicurante: «Se le cose che ho promesso di fare sembrino a qualcuno impossibili e irrealizzabili, mi offro di farne una sperimentazione in qualunque luogo vorrà Vostra Eccellenza, a cui mi raccomando con la massima umiltà».
Non ultima, la crisi economica porta anche i più attenti e onesti gestori della cosa pubblica a ‘ottimizzare’ le modeste risorse disponibili mettendo in secondo piano la qualità. Accade così che spesso si esageri in quantità nei propri racconti del ‘fare’. E che la ‘bulimia del fare’ porti a dimenticare la qualità di ogni singolo racconto.