Il racconto di Atta Wehabrebi, trafficante divenuto collaboratore di giustizia: "Queste persone che non possono pagare vengono consegnate a degli egiziani che li uccidono per prelevarne gli organi e rivenderli al Cairo per una somma di circa 15.000 dollari. In particolare questi egiziani vengono attrezzati per espiantare l’organo e trasportarlo in borse termiche”
C’è una via organizzata che dalle coste della Sicilia porta direttamente nel nord Europa. Chi, tra i rifugiati che sbarcano a migliaia, è in grado di garantire pagamenti cash per la rete dei trafficanti ha le porte aperte. Case sicure dove rifugiarsi, documenti falsi pronti all’uso, pulmini pronti per l’ultimo tratto del viaggio, verso i paesi del nord Europa. Germania, Danimarca, Regno Unito. E, per chi non può pagare, c’è un altro destino, terribile: “Queste persone che non possono pagare vengono consegnate a degli egiziani che li uccidono per prelevarne gli organi e rivenderli in Egitto per una somma di circa 15.000 dollari. In particolare questi egiziani vengono attrezzati per espiantare l’organo e trasportarlo in borse termiche”, racconta Atta Wehabrebi, trafficante divenuto collaboratore di giustizia.
Un flusso – sotterraneo ed illegale – che il network di Ghermay Ermias, l’organizzatore del viaggio terminato con il naufragio e la morte di 366 rifugiati davanti alle coste di Lampedusa nel 2013, gestiva attraverso una vera e propria struttura a cellule. C’è il gruppo di Palermo e Agrigento, specializzato nella “prima accoglienza” di chi lasciava i centri ufficiali. E c’è il gruppo romano, in grado di gestire i soldi – milioni di euro – grazie ad una centrale finanziaria. Tra scaffali di profumi e cosmetici, dietro il bancone di un piccolissimo negozio in via Volturno, i broker dei traffici umani ricevevano i pagamenti per i viaggi di chi poteva permettersi le tariffe altissime: anche dieci mila euro per una pratica per un ricongiungimento familiare farlocco. Soldi che arrivavano dalla famiglie dei rifugiati in viaggio, per poi ripartire verso i trafficanti di uomini.
L’operazione che ha portato al fermo di 38 indagati – quasi tutti eritrei, un solo italiano nel gruppo – sembra aver raggiunto il livello superiore che tutti immaginavano. Il network che usa gli scafisti per i viaggi dalla Libia appare ancora più chiaro grazie al racconto di Atta Wehabrebi: “Vi sono gruppi minori che operano dall’Egitto e dalla Tunisia ma non sono comparabili con gli altri per numeri di viaggi e guadagni. Ognuno di questi quattro ha un gruppo fidato di uomini che opera per conto loro tra i sei ed i dieci mentre poi si avvalgono di numerosi collaboratori che vengono pagati molto meno. I gruppi non sono in conflitto tra loro anzi collaborano. Tutti i gruppi hanno a disposizione armi tra cui Kalashinikov, pistole Makarov ed altro tipo di armi”. Una struttura che da questa parte del mare può contare su cellule efficienti, in grado di gestire flussi finanziari giganteschi: “A Roma il mercoledì ed il sabato – prosegue il racconto del collaboratore di giustizia, raccolto durante le indagini condotte dalla Polizia di Stato di Palermo e dal Servizio centrale diretto da Renato Cortese – vengono consegnate ingentissime somme di denaro dai commercianti che vengono dalla Etiopia. Questi pagamenti si riferiscono più che altro ai trasporti che vengono effettuati in Europa. Per quanto riguarda i trasporti in mare le somme vengono corrisposte in contanti direttamente ad Ermias, Abdrurazak ed ai loro complici e da li spedite a Dubai o in altri paesi attraverso dei commercianti libici. In particolare Abdurazak ha guadagnato circa venti milioni di dollari da questi traffici”.
A Palermo funzionavano i centri clandestini utilizzati dall’organizzazione criminale per smistare i rifugiati. C’era un ritrovo dalle parti della centrale piazza Ballarò, mentre in vicolo Santa Rosalia era attivo un magazzino dove vengono concentrate le persone in procinto di partire per il Nord Italia. Nella piccola profumeria di Via Volturno a Roma c’era la centrale finanziaria. Centinaia di migliaia di euro passavano dietro il bancone, come ha raccontato Atta ai magistrati della Dda di Palermo: “Una persona di nome Solomon (…) consegna ogni sabato 280.000-300.000 euro a Gebremeskel Mikiele dopo averli ricevuti presso la profumeria di via Volturno a Roma. Il proprietario della profumeria è proprio il Solomon che è coinvolto nel sistema Hawala perché ha un fratello in Israele ed un suo compaesano a Dubai che lo aiutano nel sistema Hawala perché i soldi arrivano là tramite i parenti dei migranti. In seguito questi due mandano i soldi a Solomon tramite dei commercianti, anche italiani, che da Dubai o da Israele viaggiano e poi consegnano i soldi”. Al momento i nomi degli imprenditori italiani coinvolti non sono stati individuati, mentre le indagini continuano ad analizzare il brogliaccio delle transazioni finanziarie sequestrato il 13 giugno scorso, quando la Polizia di Stato è entrata nel locale trovando quasi 600 mila euro in contanti.
I soldi versati dai rifugiati servivano a pagare l’organizzazione e le spese per il viaggio verso la destinazione finale. Analizzando alcuni versamenti arrivati ai fermati appaiono diversi paesi europei, dalla Danimarca alla Gran Bretagna. Esisteva poi un tariffario specifico per la gestione dei falsi ricongiungimenti familiari, che avvenivano utilizzando documenti falsificati. In questo caso il costo arrivava fino a 10 mila euro. Diversi i sistemi in uso all’organizzazione: dalla classica sostituzione della fotografia su documenti rilasciati ad altri, fino ai matrimoni simulati nel Corno d’Africa con stranieri già residenti. In alcuni casi i trafficanti preparavano le richieste dei ricongiungimenti per diverse prefetture italiane, ognuna con un nome di coniuge diverso. La mancanza di comunicazione tra gli uffici territoriali del Governo rendeva facile aggirare i controlli. Un sistema, questo, descritto da Atta, che è stato riscontrato nel corso delle indagini dalla Procura di Palermo e dai funzionari della Polizia di Stato.