Addio ai voti in numeri. Dal prossimo anno non ci sarà più nessuno che tornerà a casa con un bel nove o con un mortificante quattro. A sostituire la valutazione numerica nella scuola primaria e secondaria di primo grado, reintrodotta da Maria Stella Gelmini, arriverà il giudizio in lettere come negli Stati Uniti, in Cina, in Arabia Saudita, in India ed Indonesia: “Mamma ho preso A”, dirà il più bravo della classe. Mentre chi non ce la fa si vedrà sulla pagella e sulle verifiche una bella “E”.

Ministro che arriva, sistema che cambia e la senatrice Francesca Puglisi lo annuncia in pompa magna con tanto di spiegazione pedagogica: “Così restituiamo alla scuola primaria il compito di mettere bambine e bambini agli stessi nastri di partenza. Misurare con un numero la gioia di apprendere di un bambino è come misurare il cielo con un righello”.

Di là della vena poetica della senatrice, spesso mi chiedo con chi si confronta chi sta alla Camera o al Senato prima di prendere una decisione.
Secondo gli esperti del Ministero beccarsi una “E” o una “D” sarà diverso che un “4” o un “5” perché le lettere non fanno media matematica mentre i numeri sì. La realtà è un’altra: la maestra che si trova davanti Pierino che prende parecchie “E” e qualche “B” in pagella probabilmente farà una media e darà una “C”.

Il tema vero è un altro: servono i voti alla scuola primaria e alle medie?
Già immagino chi leggendo queste righe sta mettendosi le mani nei capelli ed è pronto ad attaccare il lavativo maestro che neanche vuole mettere i voti che servono (dicono loro) perché nella vita si è sempre valutati, perché i ragazzini se li aspettano, perché non esiste una formazione senza una valutazione che aiuti a comprendere a che punto si è arrivati.

Provo a sfatare questa retorica: a chi serve davvero il voto?
Ogni volta che entro in una nuova classe, uno dei primi passi è quello di incontrare i genitori e condividere con loro il mio metodo educativo, magari modificandolo o costruendolo a partire dalle proposte di mamme e papà. L’aspetto che più spaventa i genitori è sempre uno: i voti. Avere un maestro che non li dà li preoccupa. Eppure, spesso la soddisfazione è quella di arrivare a fine anno e sentirsi dire: “Maestro io non so che voti ha preso Alessandro durante l’anno ma l’ho visto studiare con piacere. Questo mi basta”.

Il voto a che serve?
Ho sempre pensato che se ci dev’essere può solo essere utile all’insegnante per capire se è stato capace di interessare i ragazzi, se ha spiegato bene la lezione. Sono altrettanto convinto che l’eliminazione del voto è indispensabile al progresso di chi non ce la fa. Lo dico sulla base dell’esperienza: Maria, per quattro anni ha avuto un “6” in pagella in storia e geografia dato per bontà dei maestri. Ogni verifica la sua valutazione era “5”. Occhi abbassati, motivazione pari a zero, rassegnazione e soprattutto mortificazione di fronte a chi prendeva “9” o anche solo “8”. E’ bastato eliminare questa inutile concorrenza tra bambini per vedere Maria impegnarsi, passare da “5” a “9”, senza chiaramente sapere il voto. Dopo un’interrogazione non si sentiva più mortificata, etichettata ma solo motivata dal maestro che le diceva: “Bene, si vede che hai studiato,. Ora puoi fare ancora di più. Proviamo a fare in quest’altro modo la prossima volta”.

Dall’altro canto basterebbe che al Ministero rileggessero le parole di Alberto Manzi per capire che va aperto un serio dibattito: “Ho due bambini, uno fa il dettato senza errori, cosa gli devo dare in base alla vostra valutazione decimale? Ovviamente gli devo dare dieci. Un altro bambino fa trenta errori: che voto gli devo dare? Sottozero? Normalmente gli si dà quattro. Dopo quindici giorni, il primo, che non aveva fatto errori, fa due errori; gli do otto che è sempre un bel voto, però lui è andato avanti o è andato indietro? Il secondo bambino, che aveva fatto trenta errori, la seconda volta ne fa 22, ma secondo quel criterio il suo voto rimane sotto zero. Ora, a quello che ha preso otto non posso dirgli “Guarda che sei andato male”, mentre al bambino che è passato da trenta a 22 gli devo dire “Bravo”, ma in realtà non glielo posso dire perché in base al voto, lui rimane cretino. Ma io sono sicuro che se gli dico “Bravo!”, la volta successiva di errori ne farà quindici”.

Lo aveva ben compreso anche un dirigente come Gianfranco Zavalloni che prima di fare il capo d’istituto aveva insegnato per 16 anni alla scuola dell’infanzia: “Disegnare, manipolare, colorare, incollare, raccontare, ascoltare: sono tutte azione fatte senza alcuno scopo agonistico alla scuola dell’infanzia. Poi c’è il salto. Alla scuola primaria iniziano i primi giudizi, le prime valutazioni. Gli insegnanti iniziano a dare un voto a tutto ciò che prima era fatto per gioco, con passione. In tutti i quaderni dei bambini iniziano ad apparire parole come “bravo”, “bravissimo”. Oppure compaiono i primi voti. I bambini iniziano a fare qualsiasi attività non più per piacere ma per dovere, con l’aspirazione del “buon” giudizio; con una tensione verso il risultato che annulla il piacere del compito e del processo”.

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