Il presidente della Commissione Jean Claude Juncker e quello del Parlamento Martin Schulz li hanno rassicurati. Lo Statuto dei funzionari Ue prevede però che per ricoprire un ruolo nelle istituzioni occorra “essere cittadino di uno degli Stati membri" e che se il requisito viene meno si può “essere dimessi d'ufficio". Il precedente dei norvegesi
Se verranno sacrificati sull’altare della Brexit, nessuno ancora lo sa. Ma il futuro dei dipendenti dell’Unione europea di nazionalità britannica è più incerto che mai. Sono 2mila persone che da anni lavorano a Bruxelles o in altre sedi delle istituzioni comunitarie. Nella notte in cui lo spoglio rendeva sempre più chiaro il risultato del referendum che porterà il Regno Unito ad autoescludersi dall’Europa, in molti non sono riusciti a trattenere le lacrime. “C’è un vincitore oggi, ed è il Kleenex”, è uno dei commenti raccolti in quelle ore dal Financial Times, che per questi lavoratori parla di uno “strano limbo”. Perché al di là delle rassicurazioni ufficiali arrivate dai vertici della Ue, il voto si è trasformato in un grande punto interrogativo sulla loro carriera. E le voglia di commentare è poca.
L’articolo 28 dello Statuto dei funzionari Ue prevede che per ricoprire un ruolo all’interno delle istituzioni occorra “essere cittadino di uno degli Stati membri dell’unione, salvo deroga concessa dall’autorità che ha il potere di nomina”. L’articolo 49 aggiunge che il funzionario può “essere dimesso d’ufficio dal servizio (…) quando non soddisfi più” tale requisito. La norma, valida sia per semplici impiegati che per funzionari di alto livello, non prevede dunque un licenziamento automatico per chi perderà la cittadinanza europea in seguito alla Brexit. Ma è chiaro che il problema si porrà.
E i precedenti sono limitati a pochissimi casi, come quello di una manciata di funzionari norvegesi che ai tempi del percorso di adesione del loro paese all’Europa incominciarono a lavorare per le sue istituzioni. Dell’adesione poi non se ne fece più nulla in seguito al ‘no’ uscito da un referendum, ma ai dipendenti norvegesi fu consentito di conservare il posto. Un caso che però è ben diverso da quello attuale, visto che i numeri in gioco sono ben altri: per la Commissione europea, ovvero l’esecutivo, lavorano 1.128 britannici (il 3,8% dei dipendenti), per il consiglio Ue ne lavorano 83 (2,76%), per il Parlamento 288 (3,79%), altri ancora sono all’opera per il servizio diplomatico guidato da Federica Mogherini e per altre istituzioni, per un totale intorno a 2mila.
Probabilmente i primi a lasciare saranno gli assistenti degli europarlamentari, una volta che l’emiciclo si sarà svuotato degli onorevoli di Sua Maestà. Per il resto dai vertici dell’Ue per ora sono arrivate rassicurazioni. Il presidente della Commissione Jean Claude Juncker ha inviato un’email ai britannici dipendenti dell’organismo da lui guidato garantendo che in “uno spirito di lealtà reciproca” lavorerà con i presidenti delle altre istituzioni europee “per assicurare che possiamo continuare a contare sul vostro eccezionale aiuto, esperienza e impegno”. Dello stesso tenore i messaggi inviati al personale dal presidente del parlamento Martin Schulz e dal segretario generale del Consiglio europeo Jeppe Tranholm-Mikkelsen. Ma che la questione sia delicata lo dimostra il fatto che sindacati hanno già iniziato a analizzare i codici per capire che ne sarà dei lavoratori d’oltremanica, dei loro benefit e delle loro pensioni.
La partita è aperta e finirà sul tavolo delle trattative che si apriranno non appena la Gran Bretagna ufficializzerà la volontà di staccarsi dall’Unione. Ci vorranno anni, prima di arrivare a una definizione degli accordi. Quindi, anche se i lavoratori dovessero subire un licenziamento di massa, questo non sarà a breve. Ma nel frattempo è difficile che i dipendenti britannici, e in particolare i funzionari di alto livello, mantengano invariate le proprie possibilità di carriera: “Quelli che di sicuro pagheranno per una Brexit sono i direttori generali e chi ricopre altre cariche di vertice”, diceva al sito di informazione politico.eu ancora prima del referendum Pierre Bacri, presidente dell’European Civil Service Federation, uno dei sindacati che rappresentano i lavoratori delle istituzioni europee. In ogni caso, secondo Bacri, Regno Unito e Unione europea troveranno un accordo con “soluzioni ragionevoli” per i dipendenti britannici. Al di là degli auspici, le cronache di questi giorni parlano del desiderio di molti di loro di aggiungere alla propria cittadinanza quella di un altro paese Ue, facendo magari valere gli anni di lavoro a Bruxelles per presentare domanda in Belgio.
Tra i diritti da preservare anche quello alla pensione. L’Ue ha un sistema pensionistico parallelo a quelli degli Stati membri. I dipendenti che lasciano il posto hanno la possibilità di trasferire i contributi versati nel sistema di un paese Ue oppure di continuare a fare versamenti al sistema europeo come esterni per poi ricevere la pensione una volta raggiunti i requisiti di età. Si vedrà se i britannici che dovessero essere licenziati potranno contare su entrambe le opportunità. Ma in ogni caso le pensioni ai britannici non peseranno sui contribuenti degli altri stati membri: secondo quanto la rappresentanza a Milano della commissione fa sapere a ilfattoquotidiano.it, le pensioni dei lavoratori Ue sono pagate con i contributi versati dagli stessi lavoratori, contributi che sono un’entrata per il bilancio Ue e vengono aggiornati ogni anno per assicurare l’equilibrio con le uscite per pensioni previste in futuro.
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