E’ un vero e proprio “labirinto” –  così come l’hanno battezzata i magistrati – la scena del crimine che si presenta nell’ultima inchiesta sul malaffare dei palazzi romani. Eppure al suo interno si dipana un filo d’Arianna che permette di dare un senso compiuto al convulso agitarsi dei suoi protagonisti. Basti guardare all’instancabile tessitura di relazioni operata da un binomio di faccendieri. Il primo è fratello di un ex-sottosegretario del governo Berlusconi impossessatosi anni addietro del brand “Democrazia Cristiana”, che forte di questa entratura parentale si è specializzato nella gestione di una fittissima trama di contatti politico-istituzionali, fornendo così una credibile incarnazione all’altrimenti astratta nozione di “familismo amorale”. Il secondo è uno pseudo-commercialista che cura i rapporti con l’universo delle impresucole orbitanti nel mondo degli appalti inquinati, fornendo loro un pacchetto completo inclusivo di aderenze con gli interlocutori istituzionali e servizi di creazione delle provviste in nero – mediante false fatturazioni per prestazioni e consulenze inesistenti – cui attingere per i pagamenti sottobanco.

Qual è la funzione dei mediatori nel labirintico reticolo della corruzione? Molto semplicemente, essi garantiscono ai volenterosi partecipanti al gioco un canale di accesso riservato e una camera di compensazione alla miriade di crediti e debiti via via accumulati nei loro scambi incrociati. Un vorticoso circuito di nomine, raccomandazioni, finanziamenti bancari, subappalti, proroghe contrattuali, assunzioni dirigenziali, rimborsi e controlli fiscali addomesticati, biglietti aerei, e com’è naturale anche mazzette fruscianti nel suono catturato dai microfoni nelle intercettazioni. Un favoloso mercato clandestino, senza regole né vincoli, dove a essere monetizzato è prima di tutto il valore dell’esercizio di un’autorità pubblica che negli ultimi anni si è polverizzata, rendendosi indecifrabile per chi non ha – appunto – la possibilità di seguire il “filo d’Arianna” del faccendiere.

Ad esempio, una posizione al Csm può valere assai di più di uno scranno da deputato, tanto che – si lamenta l’esponente del Ncd – “Se potevo rimanere li me ne fottevo di venire a fare il deputato a perdere tempo qua, che cazzo me ne sfottevo. Stavo tanto bene là, il potere là è immenso, là è potere pieno, non so se rendo l’idea. Ci sono interessi, sono grossi interessi non avete proprio idea”. Senza la relativa stabilità degli equilibri di potere assicurata dalle vecchie strutture partitiche, la personalizzazione della politica rende più macchinoso il lavoro dei faccendieri, ma al tempo stesso più desiderabile l’accesso ai loro servigi. A ogni valzer di nomine, infatti, questi ultimi dovranno pazientemente ricucire da capo il filo delle “amicizie” strumentali, come lamenta uno dei protagonisti: “Io con tutti gli amici che c’avevo m’ha levato un sacco di possibilità… c’ha messo quel coglione di che quello non se po’. Dopo tanti anni vanno sotto con il bilancio le Poste… Caio, là… l’Agenzia delle Entrate ce doveva mette un amico ed è uscita fuori sta Orlandi… ma tutti de sinistra e quasi tutti toscani, gente che non se conosce e te devi rifà da capo tutte le grotte”.

Pur facendo la tara alle millanterie di chi ha tutto l’interesse a vantare contatti altolocati e relazioni privilegiate, perché la reputazione alimenta la domanda e il prezzo delle prestazioni fornite, è evidente il senso della missione dei faccendieri. Tocca a loro il compito di dare una direzione coerente a tutti quelli che hanno “merce” da offrire ma difficoltà di orientamento, tra politici che chiedono raccomandazioni per i congiunti – anziché offrirle – e alti dirigenti ammirati per la loro capacità di galleggiamento con qualsiasi maggioranza politica. Tocca a loro assicurare che la circolarità degli scambi sotterranei non lasci margini a risentimenti, ostilità, incomprensioni. Come ogni altra “cricca” o comitato d’affari sono stati poi approntati meccanismi di protezione  dal rischio di un coinvolgimento penale – per fortuna rivelatisi non del tutto efficaci, grazie all’abilità degli inquirenti.

Ma a preoccupare ancor più di questa ricorrente evidenza giudiziaria di sistematico asservimento della cosa pubblica a un grumo di interessi opachi è il senso di deja-vu della reazione politica che ha accompagnato gli arresti, che unisce la solidarietà ai deputati inquisiti con la denuncia di presunti abusi dei magistrati. Quale che sia l’esito dei procedimenti giudiziari avviati, infatti, questo “labirinto” di corruzione è un caso da manuale di “assunzione di decisioni (…) devianti dalla cura dell’interesse generale a causa del condizionamento improprio da parte di interessi particolari. Occorre, cioè, avere riguardo ad atti e comportamenti che, anche se non consistenti in specifici reati, contrastano con la necessaria cura dell’interesse pubblico e pregiudicano l’affidamento dei cittadini nell’imparzialità delle amministrazioni e dei soggetti che svolgono attività di pubblico interesse”. Così definisce la realtà della corruzione l’aggiornamento del Piano anticorruzione che l’Anac ha pubblicato il 28 ottobre 2015. Qualcuno dovrebbe portarne una copia al ministro degli Interni Angelino Alfano e, se occorre, spiegargliene il significato.

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