In ogni società e in ogni epoca, una frazione numericamente ristretta di persone concentra nelle proprie mani la maggior quantità di risorse esistenti, ricchezza, potere e onori, imponendosi alla quasi totalità della popolazione. A quella che egli chiama “Vorteil der kleinen Zahl”, la “superiorità del piccolo numero”, Max Weber dedica alcune delle pagine più interessanti della sua Sociologia politica (Politik als Beruf [1919], in Gesammelte politische Schriften, Tübingen 1958²) e, negli Elementi di scienza politica (1896), Gaetano Mosca, il quale pretendeva di costituire questa scienza a partire dall’analisi della dicotomia governanti-governati, enunciando: “Fra le tendenze e i fatti costanti, che si trovano in tutti gli organismi politici, uno ve n’è la cui evidenza può essere a tutti manifesta: in tutte le società, a cominciare da quelle più mediocremente sviluppate e che sono arrivate appena ai primordi della civiltà, fino alle più colte e più forti, esistono due classi di persone, quella dei governanti e l’altra dei governati. La prima, che è sempre la meno numerosa, adempie a tutte le funzioni politiche, monopolizza il potere e gode i vantaggi che ad esso sono uniti; mentre la seconda, più numerosa, è diretta e regolata dalla prima in modo più o meno legale, ovvero più o meno arbitrario e violento, e ad essa fornisce, almeno apparentemente, i mezzi materiali di sussistenza e quelli che all’utilità dell’organismo politico sono necessari”.

Negli ultimi decenni, si è tuttavia verificato qualcosa che ha determinato, come avverte Zygmunt Bauman (Una nuova condizione umana, 2003), “un disturbo serissimo nella comunicazione tra le élites politiche e gli “oi polloi”, cioè la moltitudine, la massa amorfa. In particolare, in forza della globalizzazione, si è assistito allo sfaldamento di quel mondo solido, forte, ordinato, conosciuto sotto il nome di modernità, al quale è subentrato un universo “liquido”, destrutturato, precario, privo di riferimenti stabili.

La mutazione di scenario ha inciso profondamente sulle esistenze individuali: angoscia, fragilità, perdita di senso sono le cifre dei vissuti più comuni, non solo in Occidente. Per non parlare dei riflessi di tutto questo sulla nuova condizione umana: disuguaglianze e povertà crescenti, diritti umani calpestati, prepotente ritorno di violenza e guerre. L’umanità di immense moltitudini è minacciata. Un passaggio epocale assai difficile da comprendere: la rivolta contro l’Europa dei burocrati di Bruxelles e delle banche, il Centro Europa che dimentica di essere il cuore del Continente ed erige muri per separare Paesi come la Polonia o l’Ungheria dall’Occidente, l’accettazione della volgarità come linguaggio corrente; tutto ciò è contrario alla razionalità occidentale, la quale poggia, per contro, sui principi di causalità, non contraddizione e terzo escluso; oltre che sul potere del sapere e della parola, ma anche sul rispetto se non dell’altro, almeno del proprio benessere e di quello dei propri figli e nipoti.

Nella misura in cui le preoccupazioni delle élites, costrette a confrontarsi con poteri sempre più indipendenti dalla politica ed extraterritoriali, sono diverse dalle angosce che attanagliano la gente che, almeno in teoria, dovrebbero rappresentare,è di tutta evidenza il vantaggio che può accumulare chi, con discorsi da osteria elevati ad altezze sataniche, trasforma il carbone del mugugno da avvinazzati e l’ignoranza stracciona in irresistibile appello alle emozioni degli “oi polloi”, facendo del normale, endemico pregiudizio una dottrina. D’altra parte, e forse proprio per questo, il demone della volgarità, della mezza cultura, del rancore impiegatizio nei confronti di quei fantasmi che, in tutti i bar del mondo, hanno sempre incarnato la diversità, tanto più minacciosi quanto più indecifrabili, oltre che dei riformatori da osteria, usi picchiare il pugno sul tavolo, con la bocca impastata e l’occhio a palla, s’è impossessato anche di coloro che, nell’ostentare l’educazione ricevuta in ottime scuole e, dunque, l’abitudine a piatti metafisici ben più ricchi e raffinati, danno invece prova di non capire che il fenomeno dei demagoghi e la nostalgia per il governo della mano forte che ad esso sempre s’accompagna, sono per dirla ancora con Zygmunt Bauman, nient’altro che la “conseguenza prevedibile e quasi inevitabile del divorzio tra il potere e la politica”.

Tanto i demagoghi quanto chi bolla il populismo come l’idea stramba di taluni pazzi marginali, soffrono della medesima sindrome: persa la fede nel progresso, che lega insieme democrazia, libertà, benessere, visione del futuro, gli uni e gli altri si rifugiano nella nostalgia di un passato mitico e inventato, cercando, ciascuno a proprio modo, di descrivere la realtà, adattando la propria narrazione agli orizzonti mentali del rispettivo uditorio, volta a volta esaltando o esorcizzando la decadenza, cioè il progressivo affievolirsi della fiducia nella bontà del futuro.

Al netto, insomma, degli schizzi di saliva delle chiacchiere da tavolino, è proprio la decadenza, però, tra le poche cose al mondo che non decadono mai: essa è permanente; c’è sempre stata e non c’è tempo andato che non sia decaduto esattamente come decade il presente.

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