Massimo Bossetti è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. La Corte d’Assise di Bergamo ha detto la parola “fine” a questa terribile vicenda? Forse sì; processualmente è assai complicato ribaltare una sentenza di questo tipo. Le prove sono state acquisite, Bossetti, con il suo difensore, ha tentato tutte le strade per proclamare la sua innocenza. La moglie lo ha aiutato, come, forse, nessuna altra donna avrebbe fatto. L’opinione pubblica è soddisfatta. Come avrebbe detto l’antropologo Durkheim, è stata riparata la ferita inferta alla società dal delitto. Come dire: giustizia è fatta. Anche il lato “pop” della giustizia criminale ha avuto la sua soddisfazione: a due anni esatti dall’arresto dell’odierno condannato, la scure dell’ergastolo è caduta, inesorabile, sulla sua testa.
La Corte ha certamente meditato la decisione; il Presidente della Corte, Giudice attento e inesorabile, come ogni ottimo giudicante, non ha certamente mancato di analizzare ogni piccolo dettaglio della vicenda. La conosco da quando era Magistrato “a latere” di un collegio “di altri tempi”, sia per rigore giuridico, sia per qualità morali. Con il difensore di Bossetti ho un rapporto di franca amicizia; con il consulente Marzio Capra mi lega un’amicizia che va oltre le rispettive competenze sulla prova scientifica.
E’ dal momento del verdetto che penso alla possibilità di una soluzione diversa; perché, da avvocato, è normale che sia così. Il ventiquattro aprile dello scorso anno ho organizzato un convegno con la mia associazione Justice of Mind, proprio per ragionare su questa vicenda e su quella “strana” prova del Dna. Come dice il mio Maestro in materia (ed anche, credo, di Marzio Capra) il Dna è come una Ferrari: “bisogna saperla guidare”. L’ultima richiesta di libertà per Bossetti, decisa dall’Ufficio Giudiziario di Brescia, ha motivato il diniego della libertà (ovvero degli arresti domiciliari) motivando, tra i motivi contrari alle istanze difensive, un aspetto che non è stato risolto: il profilo genetico trovato sul corpo della vittima è un mix di Dna nucleare dell’accusato e di Dna mitocondriale di un soggetto sconosciuto. Ciò non è possibile. Quale soluzione all’enigma?
Sull’anomalia di questo risultato si sono espressi in tanti. Va ricordato che il Dna, nella sistematica del codice di procedura penale, è un indizio e come tale deve essere “grave” e “preciso”. La gravità indica la diretta riconducibilità del fatto (in questo caso la traccia genetica) all’ipotesi di reato; la precisione alla certezza dei suoi contorni fattuali. Nel caso di specie la gravità può essere riconosciuta dalla dislocazione della macchia biologica ritrovata (l’indumento intimo della vittima; ma è assai più complesso rilevarne la precisione. E’ infatti anomala la circostanza dell’esistenza di un Dna nucleare appartenente al soggetto “x” ed un Dna mitocondriale non suo, ma di “proprietà” di altra persona, sconosciuta. Peter Gill, luminare europeo in materia, al tempo del convegno citato, aveva sostenuto che questa circostanza sarebbe stata dovuta essere oggetto di chiarimento da parte della Corte; Marzio Capra ha tentato in tutti i modi di far intendere il problema ai Giudici togati ed ai giurati; Claudio Salvagni ha “sputato sangue” per questo processo. Il Giudice della libertà di Brescia aveva suggerito di risolvere il problema al dibattimento. Sarà interessante leggere le motivazioni sul punto.
Qualcosa di curioso emerge però dal dispositivo (il verdetto) di condanna: tutti gli elementi sequestrati a Bossetti debbono essere a costui restituiti. Tranne la traccia di Dna che, evidentemente, non gli appartiene più. Come dire: tutte le fonti di prova portate in giudizio non sono d’interesse e dunque ne faccia la difesa ciò che vuole. Ed allora resta il Dna, con le sue anomalie, coi suoi dubbi. Forse non è tutto così scontato come sembrerebbe oggi.