Sono scricchiolii sinistri quelli che si sentono in queste ore nei mercati finanziari britannici. Presto però per dire se si tratta di movimenti di assestamento o di avvisaglie di un crollo. Il focolaio di crisi si è acceso nel settore degli immobili commerciali. Martedì quattro grandi società di investimento hanno congelato i loro fondi specializzati in questo settore. Chi aveva sottoscritto quote non può quindi, per ora, venderle e farsi restituire i soldi. Si tratta dei fondi di Standard Life (2,9 miliardi di sterline di asset in gestione), di Aviva (1,8 miliardi di sterline), di M&G (4,4 miliardi). Sono fondi che hanno proprietà immobiliare di tipo commerciale (negozi, uffici, magazzini) concentrati principalmente nell’area londinese.
Secondo alcuni operatori il valore di questi immobili potrebbe scendere fino al 20% nei prossimi tre anni per effetto dell’uscita del paese dall’Unione europea e del conseguente trasferimento all’estero di alcune attività. Chi aveva investito in questi fondi teme quindi di perdere parte dei propri soldi e tutti si affollano allo sportello, vero o virtuale, per recuperare i propri risparmi prima che sia tardi. I fondi bloccati hanno però caratteristiche che li rendono particolarmente vulnerabili a questa situazione. Sono aperti al pubblico dei piccoli risparmiatori che possono, in teoria, ritirare o loro investimenti in qualsiasi momento. Inoltre hanno “cuscinetti di liquidità” piuttosto esigui. Significa che hanno pochi soldi cash, o investiti in prodotti finanziari facili da rivendere, per far fronte alle richieste di disinvestimento. Il fondo di M&G ha una liquidità pari al 7% dei suoi asset, quello di Aviva al 9,3% e Standard Life al 13.2%. Non tutti si trovano in questa situazione. Il fondo immobiliare Legal & general con asset da 2,5 miliardi di sterline e 500 milioni di cash (il 20% degli asset) ha ad esempio confermato la normale operatività del fondo.
In queste situazioni il vero pericolo è che si diffonda una sorta di panico che induce tutti a fuggire senza fare troppe distinzioni e colpendo anche i fondi più sani. Per pagare chi vuole liquidare le quote chi gestisce il fondo inizia a vendere tutto quello che ha in portafoglio, propagando così lo stress anche ad altri prodotti finanziari. Un meccanismo visto in opera con tutta la sua potenza distruttiva nella crisi del 2008 che iniziò proprio con la chiusura di alcuni fondi (di Bnp e di Bear Stearns) specializzati in titoli legati ai mutui. Fortunatamente non sempre l’esito finale è così catastrofico. Alcuni mesi fa, ad esempio, sono stati sospesi alcuni fondi specializzati in bond ad alto rendimento del settore energetico Usa particolarmente esposti sui prodotti in assoluto più rischiosi. In quell’occasione gli investitori hanno saputo distinguere e l’effetto contagio non c’è stato.
Per avere una descrizione di quello che sta accadendo in queste ore in Gran Bretagna basta leggere il rapporto diffuso proprio martedì dalla Bank of England in cui si sottolinea come inizino a manifestarsi i primi segnali di rischio per la stabilità finanziaria del paese. Un capitolo è dedicato in particolare al settore immobiliare commerciale. La banca centrale britannica rimarca come il commercial real estate fosse sotto pressione già da inizio anno, anche a causa delle aspettative per l’esito del referendum. Nei primi tre mesi dell’anno gli investimenti provenienti dall’estero sono diminuiti di quasi il 50% rispetto all’ultimo trimestre del 2015. Nel complesso, spiega la BoE, i fondi immobiliari aperti focalizzati sul commerciale gestiscono asset per 35 miliardi di sterline, il 7% del mercato. Già nei mesi che hanno preceduto il voto questi fondi avevano registrato un deflusso di denaro. A rendere più instabile la situazione c’è, come sempre, la leva finanziaria, ossia l’utilizzo del debito per investire. Più un investitore si indebita per comprare asset più è esposto ai cali dei loro prezzi.
Le grandi banche britanniche hanno un’esposizione verso il settore immobiliare commerciale pari al 55% del loro capitale, una quota in discesa dal 2008. Gli stress test a cui sono state sottoposte nel 2014 e nel 2015 includevano l’ipotesi di un calo dei prezzi di edifici commerciali del 30% e gli istituti esaminati hanno mostrato una buona capacità di tenuta di fronte a questo scenario. Più delicata la situazione delle piccole banche e gruppi di costruzioni dove i finanziamenti per immobili commerciali hanno un’incidenza proporzionalmente maggiore sul bilancio. La Bank of England sottolinea come esista anche un altro elemento di pericolo. Turbolenze nel settore potrebbero ridurre la capacità delle imprese di ottenere prestiti dando come garanzia i propri immobili commerciali, penalizzando investimenti e in ultimo la crescita economica. A questo proposito la Boe stima che un calo del 10% nel valore del real estate commerciale si traduca in una riduzione dell’1% degli investimenti.
La situazione pare, almeno per ora, meno preoccupante nell’ambito residenziale dell’area londinese. Nella capitale esistono una serie di fattori strutturali e un cronico ritardo dell’offerta di abitazioni rispetto alla domanda che contribuiscono a sostenere i prezzi. Secondo gli esperti l’uscita dall’Unione europea avrà si qualche contraccolpo ma non dovrebbe provocare un crollo delle quotazioni. Una sterlina debole potrebbe inoltre aumentare l’interesse degli investitori esteri . Ovviamente tutto dipenderà anche da come la Gran Bretagna saprà gestire questa fase complicata. Per ora il paese attraversa una crisi di natura politica. Far si che non si tramuti in una crisi economica dipenderà dalla velocità e dall’efficienza con cui il paese saprà ripensare il suo nuovo status.