Meglio che lo Stato ci metta qualche miliardo, ottenga azioni che poi potrà rivendere, guadagnandoci, quando la bufera sarà passata. Questa è la linea che il governo italiano sostiene a Bruxelles da quando, con il referendum sulla Brexit, i mercati hanno di nuovo perso fiducia nel sistema bancario italiano. Ma questo è anche l’orientamento che esprimeva Mario Draghi, il presidente della Bce, in una lettera riservata a Joaquin Almunia, commissario alla Concorrenza quando, nel 2013, la Commissione Ue definiva il passaggio dal bail out (salvataggio delle banche a spese dei contribuenti) al bail in (soluzione delle crisi a spese di azionisti e creditori).
La richiesta di Francoforte, come ha spiegato ieri sul Fatto Giorgio Meletti, può essere il colpo di grazia a Mps: la banca guidata da Fabrizio Viola ha chiesto agli azionisti 5 miliardi nel 2014, altri 3 nel 2015, oggi in Borsa vale meno di 800 milioni ma il 29 luglio l’Eba, l’autorità bancaria europea, dirà che Mps ha bisogno di altri 3 miliardi di capitale. Nessuno li metterà in una banca che ha un buco teorico di 5 miliardi. Soltanto lo Stato potrebbe intervenire, ma le regole europee richiedono che prima vengano scaricate perdite pesanti su azionisti e creditori. Tradotto: la vigilanza europea, tra Eba e Bce, dice a Mps che deve svalutare 5 miliardi e trovarne 3 sul mercato per essere pronta ad affrontare scenari di crisi, ma visto che è una missione impossibile, Mps rischia di entrare subito in una crisi irreversibile che avrà come prima conseguenza la conversione in azioni delle obbligazioni subordinate, le stesse che hanno fatto vittime nel crac di Etruria e delle altre tre banche a novembre.
La Bce può smentire le obiezioni di Draghi perché, nel progetto di Unione bancaria, i governi dell’euro e la Commissione hanno affidato la vigilanza bancaria sulle grandi banche europee a Francoforte, ma creando una separazione tra politica monetaria e supervisione sul credito per evitare conflitti tra obiettivi divergenti. Risultato: l’attività di Draghi è separata da quella della vigilanza, guidata dalla francese Danièle Nouy, dalle dichiarazioni pubbliche dei due si è sempre notata una differenza di approccio, più pragmatico da parte di Draghi, più intransigente per la Nouy.
Nel 2013 Draghi scriveva: “Speriamo che i casi di ricapitalizzazioni pubbliche siano eccezionali, ma potrebbero essere comunque necessari. Ma questo non significa che i contribuenti debbano pagare il conto. Abbiamo molti esempi di banche sostenibili che sono state ricapitalizzate con denaro pubblico per rafforzare la fiducia nella loro stabilità, quei soldi in seguito sono stati ripagati in modo tempestivo e con ritorni non trascurabili”. Tra gli esempi citati da Draghi: Banco Popolare in Italia, Natixis e Société Générale in Francia, Goldman Sachs negli Stati Uniti.
Invece sembra aver prevalso, in questi tre anni, la posizione che Karl Whelan, economista ex Bce ed ex Federal Reserve, sintetizzava così nel 2013: “Se il governo investe denaro pubblico prima che il debito subordinato sia stato convertito in azioni, allora quei soldi dei contribuenti saranno i primi nella lista di quelli che andranno perduti”. Sempre nella lettera ad Almunia, Draghi invece avvertiva dei pericoli sistemici della conversione forzata delle obbligazioni subordinate: gli investitori, privati o fondi, che hanno comprato subordinate anche di banche sane percepirebbero una aumento del rischio, ci sarebbe un crollo di quel mercato che “potrebbe far fuggire gli investitori dal sistema bancario europeo, con il risultato di “distruggere quella stessa fiducia nelle banche dell’euro che stiamo cercando di ricostruire”.
da Il Fatto Quotidiano del 7 luglio 2016