C’è ancora qualcuno, sui social e sui giornali, che parla del voto grillino come voto di barbari, di zoticoni, di incolti. Questa cosa spesso si associa alla provocazione (talvolta ben più di una provocazione) di proporre di escludere dal voto gli ‘ignoranti’. L’idea di una limitazione della democrazia in ragione della complessità delle questioni che la politica si trova a dover gestire si sta facendo largo in modo inquietante. Si tratta naturalmente di un colpo di coda di una classe dirigente ferita, che ha paura della democrazia proprio laddove occorrerebbe che la democrazia venisse finalmente presa sul serio. Meno sul serio, se non fosse per la sua preoccupante diffusione, andrebbe presa proprio la tesi della democrazia limitata ai ‘sapienti’. Coloro che la propugnano, per restare al caso italiano, fanno spesso parte di quell’area culturale vasta che una volta si sarebbe riconosciuta nella sinistra tradizionale: una sorta di aristocrazia egemonica nella cultura italiana, che ha guardato dall’alto in basso le culture della destra, anche con qualche ragione. Da qualche tempo però, per molti motivi, quella spocchia è sempre più difficile da giustificare: l’impoverimento culturale delle nuove generazioni, lo iato sempre maggiore tra intellettuali e partiti negli anni Duemila, un certo rassegnato disimpegno da parte dell’intellighenzia, ma soprattutto lo scarsissimo livello culturale di buona parte del ceto politico odierno. Peraltro, mentre i sostenitori della limitazione del suffragio universale si preoccupano di scongiurare l’incipiente invasione barbara, non si accorgono che una buona parte della sinistra, anche di quella sinistra colta e intellettuale, si è spostata sul M5S.
Se poi si volesse discutere nel dettaglio l’idea di una democrazia dei competenti o dei sapienti, si potrebbe partire dal chiedersi se quelli che propongono di sottoporre il diritto all’elettorato attivo a prove di cultura o cognitive sarebbero favorevoli a sottoporre i titolari di elettorato passivo alle stesse prove. Perché a vedere certi risultati, si direbbe che molti dei rappresentanti eletti non le supererebbero. In realtà si tratta di proposte surreali: benché incarnino minacciosi segnali sul piano politico, sul piano teorico sono non più che meri esercizi accademici. Occorrerebbe intanto stabilire quanta cultura, e di che tipo, sarebbe sufficiente per poter accedere al voto; poi si dovrebbe stabilire come misurarla, e da parte di chi; ogni quanto tempo; e così via. Ciò che invece certe vestali della Cultura dovrebbero finalmente comprendere è che essa non ha alcuna funzione salvifica. Esercizio per esercizio, perché non proporre invece degli ‘esami di empatia’ per capire se, più che sul piano cognitivo e culturale, eletti ed elettori siano in grado su quello emotivo di capire quale saranno le conseguenze delle loro deliberazioni? Perché dovremmo pensare che le capacità razionali siano superiori a quelle emotive?
In realtà l’eletto, che certo non può essere uno sprovveduto, è titolare di una funzione di indirizzo politico, dovendosi poi servire di funzionari e burocrati che, quelli sì, dovrebbero essere ‘competenti’, e la cui competenza e dedizione all’interesse pubblico dovrebbero essere garantite attraverso la trasparenza e l’imparzialità della selezione per concorso. Ma le due forme legittimanti devono restare differenti. Invece la democrazia dei competenti è il tentativo di tracimazione di quel settore (la burocrazia) sulla politica: una febbre ideologica di razionalità, di ‘correzione’ delle ‘storture’ della democrazia. Tentazioni già presenti ai primi del Novecento, quando – come racconta Pierre Rosanvallon nel suo libro La legittimità democratica, sulle cui ambiguità qui non possiamo soffermarci – venne coniata in effetti la parola ‘technocracy’. È in quel periodo che si ha come obiettivo l’eradicazione non della corruzione, ma dell’incompetenza, il cui culto era stato denunciato nel 1910 dallo scrittore Émile Faguet nel libro Le culte de l’incompétence. La burocrazia e la competenza diventano gli strumenti tesi a limitare gli inconvenienti delle elezioni, in balia degli umori delle masse. Oggi questa tendenza è visibile in tutte le democrazie mature, laddove si affermano sempre più oligarchie tecnocratiche e agenzie decisionali specialistiche e non elettive, sia nel contesto interno che in quello delle istituzioni internazionali. La sfida è dunque di combinare competenza e democrazia affinché la repubblica dei concorsi (a patto che si svolgano regolarmente…) si accordi con la repubblica del suffragio universale.