Crede nella scienza e nella religione, nell’applicazione dei teoremi e nell’esistenza di qualcosa di superiore e più importante. Sembra un controsenso ma non lo è, per un uomo d’altri tempi come Fernando Santos, devoto e pragmatico, che ha dedicato al calcio la sua vita senza mai perdere di vista i riferimenti fondamentali. Vincendo poco, quasi nulla. Eppure benvoluto ovunque. Da giovane e da vecchio, il calcio non è mai stato la sua priorità. E forse neanche adesso che è arrivato a giocarsi la finale di Euro 2016: Portogallo – Francia può cambiare la storia di un intero Paese che non ha mai vinto nulla, non la sua vita.
Il segreto del Portogallo rivelazione di Euro 2016, a lungo orfano di Cristiano Ronaldo, nel guado di un ricambio generazionale ancora in divenire, è proprio Fernando Santos. La sua nazionale prima della facile semifinale contro il Galles non aveva mai vinto nei novanta minuti in tutto il torneo, faranno notare i suoi detrattori: vero, ma non aveva neanche mai perso. L’ “ingegnere di Penta” – come è soprannominato dai suoi tifosi – non lo ha mai fatto in partite ufficiali da quando siede sulla panchina lusitana. Al momento del suo arrivo (il 24 settembre 2014, al posto del dimissionario Paulo Bento) il Portogallo sembrava una squadra da rifondare: reduce dal disastro mondiale (fuori al girone in Brasile) aveva perso in casa contro l’Albania al debutto delle qualificazioni per Euro 2016, mettendo in dubbio la stessa partecipazione in Francia. Dopo solo vittorie nel girone. Un percorso netto che forse qualcuno ha sottovalutato.
Rifondazione doveva essere e rifondazione in qualche modo è stata: ha convocato più giocatori Santos in un anno e mezzo che Paulo Bento nel quadriennio precedente. Ha creato un mix equilibrato di giovani (Guerreiro, André Gomes, il forte e chiacchierato Renato Sanches) e vecchi (Pepe, l’eterno Carvalho), dietro la stella di Ronaldo. Anche all’interno di Euro 2016 non ha avuto paura di cambiare in corsa: la squadra che è arrivata a giocarsi la finale è diversissima da quella che aveva iniziato il torneo, per uomini e modulo. Non per l’idea di gioco: pragmatica, poco spettacolare. Da difensore, il ruolo che ricopriva in campo. O da ingegnere, il mestiere per cui i genitori lo avevano fatto studiare per anni.
Da giovane, in realtà, avrebbe voluto fare il portiere. Ma il padre lo rimproverava per i troppi pantaloni strappati per strada. Così è diventato difensore e ha vinto 4 scudetti col Benfica, prima di passare in panchina. Ruolo che gli ha regalato meno vittorie ma più adatto alla sua mente formata da una laurea in ingegneria elettronica e le sue capacità da direttore da albergo, altro posto che gli è capitato di occupare prima di arrivare nel grande calcio. Professionista serio, uomo schietto e discreto anche quando è stato adottato da un mondo che vive di spettacolo: non ha mai nascosto la sua fede per il Benfica, ma ciò non gli ha impedito di allenare i rivali di Porto e Sporting Lisbona, ben prima della sua squadra del cuore. L’unico scudetto della sua carriera l’ha vinto proprio coi Dragoes (ormai tanti anni fa, nel ’99). Poi è stato amato molto in Grecia, la sua seconda patria: eletto quattro volte miglior allenatore del campionato (ma vincendo solo una coppetta); poi chiamato a guidare una nazionale che sembrava esaurita dopo il miracolo di Euro 2004, e che invece ha portato fino agli ottavi di finale ai Mondiali 2014. Lo stesso miracolo che, uomo di fede, ha ripetuto poi col Portogallo.
In tutto questo tempo il suo calcio non è cambiato di una virgola, perché lui è rimasto uguale. Concreto, devoto, abituato a non aver mai nulla regalato da nessuno. Sul campo e nella vita. La messa la domenica mattina, l’amore per la moglie Guillhermina (la stessa di sempre) i due figli Catia e Pedro. L’hobby della pesca con gli amici , la passione per il calcio. Che però “non conta niente se comparato ai veri valori della vita, come la paternità o l’amicizia. Nulla, zero”. E così la penserà anche domenica sera, comunque vada Portogallo – Francia.