C’è un’Italia che apre le porte, mette a disposizione alberghi, chiese, intere abitazioni o stanze sfitte, e che ogni giorno si siede a tavola con migranti dalle storie sconosciute, insegna loro la lingua e li aiuta a ricostruire una vita. E poi ce n’è un’altra, quella che strepita, si oppone, riempie le bacheche facebook di lamentele che sfociano spesso nell’insulto. Parla di “sicurezza” e “invasione”, accusa chi ospita di farlo solo per il proprio interesse, e forma comitati di protesta. Talvolta minaccia, manda biglietti intimidatori anonimi, o scatena raid incendiari.
Non è una vita facile quella di chi, nell’ultimo anno, ha deciso di lavorare per l’accoglienza dei richiedenti asilo e di chi arriva sulle nostre coste. Da nord a sud, sono tanti coloro che raccontano episodi di diffidenza, intolleranza e fastidio, con cui devono convivere quotidianamente: si va dall’albergatore che si è visto recapitare lettere anonime con minacce di morte, a quello che ha perso i clienti abituali che poco gradivano la presenza di africani nella stanza accanto, fino alle diverse manifestazioni organizzate contro l’apertura di centri per immigrati. Quasi tutti piccoli casi, che non sono espressione della maggioranza e che spesso non superano i confini delle cronache locali. Ma, messi insieme, dipingono comunque l’immagine di un Paese in cui, a fatica, convivono anime opposte.
Le minacce- Spesso i primi a essere presi di mira, perché tra quelli più esposti, sono gli albergatori che fanno accordi con le prefetture per dare alloggio a gruppi di richiedenti asilo. Giulio Salvi, direttore dell’hotel Bellevue in Valtellina, ha ricevuto minacce prima in una lettera lettera anonima: “Via i migranti dall’hotel o li uccido uno a uno”. Poi via facebook, dove sono apparsi diversi commenti in cui si invitava a dare fuoco all’albergo. Tra le accuse a Salvi c’era anche quella di sciacallaggio: “Incassi milioni con finti profughi”. Di certo Salvi non è l’unico ad aver ricevuto intimidazioni di questo tipo e con questi toni. Ad aprile Walter Scerbo, sindaco di Palizzi, in provincia di Reggio Calabria, si è visto recapitare un bigliettino non firmato, ma con un messaggio molto chiaro: “Se succede qualcosa con questi bastardi negri ti ammazziamo”. A scatenare le minacce xenofobe era stato il progetto di accoglienza di un gruppetto di stranieri, voluto proprio dall’amministrazione comunale.
L’incendio al Mark Hotel – L’albergo, chiuso da 10 anni, si trova a Ussita, minuscolo comune in mezzo al verde, in provincia di Macerata. A maggio, dopo che il proprietario aveva messo a disposizione le proprie stanze per accogliere i profughi, facendo fare anche dei sopralluoghi, qualcuno è entrato nella struttura forzando la porta. Ha portato con sé del gasolio e poi ha dato fuoco ai materassi, proprio quelli destinati ai migranti. “Anche qui nelle Marche c’è un clima preoccupante, fino adesso sottovalutato da tutti”, ha detto don Vinicio Albanesi, pochi minuti dopo la morte di Emmanuel, il 36enne nigeriano a Fermo. Nei mesi scorsi sono stati piazzati degli ordigni rudimentali davanti a quattro chiese della diocesi di Fermo, tutte parrocchie impegnate in progetti di solidarietà. Le indagini sono in corso, ma il religioso è convinto che le bombe siano opera della stessa mano, e che abbiano come obiettivo quello di scoraggiare le attività di aiuto agli extracomunitari.
La fuga dei turisti – Giancarlo Pari gestisce un piccolo hotel di fronte alla spiaggia di Igea Marina, a pochi chilometri da Rimini. L’anno scorso, su proposta della prefettura, aveva deciso di concedere ospitalità a tre gruppi di migranti, circa 40 persone in tutto. L’aveva fatto volentieri e la convivenza non aveva dato alcun problema. Eppure, passato l’inverno, all’inizio della stagione estiva, ha chiesto di interrompere il progetto di accoglienza. “Ci sono troppe difficoltà da parte delle persone bianche ad accettare quelle di colore – ha raccontato alle telecamere del fattoquotidiano.it – Sono stato obbligato, altrimenti avrei perso i miei clienti abituali”.
Le proteste dei comitati – A volte basta solo ipotizzare l’apertura di un centro d’accoglienza per far scattare le manifestazioni dei cittadini, raccolti in comitati. A maggio sempre nelle Marche, in provincia di Ancona, gli abitanti di Castelferretti hanno bloccato la strada con striscioni e fumogeni per opporsi al progetto, ancora tutto sulla carta, di allestire in zona un campo profughi. Anche in provincia di Parma, qualche mese prima, i cittadini avevano organizzato sit-in e fiaccolate per dire no alla sistemazione di una quindicina di profughi in una ex scuola. Nel vicentino, don Lucio Mozzo, voleva sfruttare gli spazi di una canonica chiusa da tempo per dare aiuto a una decina di profughi. Il suo progetto è stato bloccato da centinaia di fedeli che, dimenticando la carità cristiana, sono andati su tutte le furie e si sono riuniti in massa nella chiesa di Don Mozzo. Alla fine il prete è stato costretto a fare un passo indietro.
A contattare don Mozzo era stata l’associazione Papa Giovanni XXIII, impegnata ogni giorno sul fronte dell’aiuto ai migranti: “Abbiamo avuto un paio di casi di proteste in Veneto – racconta Giovanni Paolo Ramonda, responsabile generale della comunità – una parte della cittadinanza si è risentita e ha fatto resistenza. Ma non generalizzerei. Abbiamo ricevuto anche tanta solidarietà. Di sicuro noi continuiamo a portare avanti il nostro lavoro, perché crediamo nel valore dell’accoglienza. Pensiamo però che vada fatta per piccoli gruppi, 10 o 12 persone al massimo, non con grossi agglomerati. Solo così si può favorire la convivenza pacifica e il rispetto verso lo straniero“. Famosi sono poi due casi andati in scena l’estate scorsa: quello di Quinto di Treviso, dove i residenti si sono rivoltati contro la presenza in un residence di 100 profughi ottenendone lo spostamento, e quello di Roma, dove ci sono stati anche scontri tra Casapound e polizia.
L’accoglienza in casa – Nell’estate scorsa Roberto Gabellini, pensionato di Rimini, ha dato le chiavi della propria casa a un’associazione che assiste i migranti. Una villetta a due piani, con vista sulle colline, dove sono entrati 17 profughi. Apriti cielo: Gabellini, con un passato in Alleanza nazionale, è stato obbligato far fronte a una tempesta di critiche e accuse di sciacallaggio. Alcune provenienti da suoi ex-amici di partito. Qualcuno si è spinto anche oltre, arrivando alle minacce: “Vengo a incendiarti casa per sentire la puzza di negro che brucia”. Per questo l’uomo, che ha anche pensato di assumere una ditta di vigilanza privata per la notte, si è rivolto alle forza dell’ordine. “I carabinieri ci hanno aiutato molto – racconta – spesso sono passati per assicurarsi fosse tutto tranquillo”. Oggi però, a un anno di distanza, le cose sono cambiate. “I ragazzi ospitati si sono guadagnati la fiducia con il loro lavoro e il loro comportamento, sempre impeccabile. E sono riusciti a superare la diffidenza dei vicini e di una parte della città. E di minacce non ne sono più arrivate”. Anche la famiglia di Maria Cristina Visioli, che fa parte della rete Refugees Welcome Italia, ha deciso di aprire (gratuitamente) le porte della propria abitazione di Bologna ai profughi. Ma qualcuno tra i vicini ha avuto da ridire. “Finché abbiamo ospitato giapponesi o americani nessuno ha detto un parola. Quando sono arrivati ragazzi africani, c’è chi si è lamentato in assemblea di condominio. Fortunatamente è stato un episodio senza conseguenze, ma è il sintomo di una certa diffidenza nei confronti delle persone di colore, che c’è anche a Bologna”.