Se salta il Monte dei Paschi di Siena casca l’Italia e poi l’Europa e infine finiamo tutti giù per terra. Sulla base di questo sopraffino ragionamento di politica economica il governo Renzi vorrebbe utilizzare i soldi dei contribuenti per salvare la banca più antica del mondo, che ha resistito a secoli di rivolgimenti ed è sopravvissuta a due guerre mondiali, ma è stata affondata in neanche un decennio da amministratori nominati dal suo partito. Una strategia che incassa anche la benedizione dell’Economist che questa settimana ci dedica una copertina e pragmaticamente mette da parte la consueta visione pro mercato e favorevole alla “selezione naturale delle imprese” in favore di un intervento di stato che scongiuri la temibile ascesa dei “barbari” a 5 stelle.
Come raccapezzarsi in questo intreccio di politica finanza ed economia e, soprattutto, quanto costerà a noi contribuenti? Proviamo capirci un po’.
Mps è una banca quotata in borsa e il valore delle sue azioni è ai minimi storici. Il motivo principale è costituto dall’enorme fardello di crediti problematici, dai quali l’istituto porterà a casa solo una parte del valore nominale iscritto. La parte peggiore di questi crediti, le sofferenze, che hanno un valore nominale di 27 miliardi (su un totale crediti deteriorati di 47 miliardi) è già stata svalutata per 17 miliardi portando il residuo valore netto di bilancio a 10 miliardi. Lo scetticismo dei mercati riguarda esattamente questo valore: se ad esempio il recupero effettivo risultasse inferiore, chi oggi investisse in azioni della banca dovrebbe fronteggiare una perdita.
L’unica via è pertanto quella di dismettere tutti questi crediti e far emergere il loro effettivo valore di realizzo, in modo che si possa investire in una banca finalmente ripulita. Nell’ordine allora è plausibile che avvenga quanto segue:
In quale passaggio il governo usa i nostri soldi? Nel primo passaggio, una cessione a prezzi di mercato potrebbe essere troppo onerosa (per esempio portando ad un realizzo intorno a metà del valore di bilancio con conseguente perdita di circa 5 miliardi) pertanto è probabile che tramite il fondo Atlante (o una sua derivazione che potrebbe chiamarsi Giasone) vengano impiegati fondi di Cassa depositi e prestiti o Sga (la ex bad bank del Banco di Napoli di proprietà del tesoro) e di alcune casse previdenziali. Non si tratta per il momento di una perdita certa, ma di un “prestito ad alto rischio” che potrebbe valere tra 1 e 1,5 miliardi (il resto lo mettono banche, assicurazioni e investitori privati). Se la perdita arrivasse al 20% saremmo intorno ai 400 milioni.
Nel secondo passaggio successivo il ministero del Tesoro sarebbe chiamato a sottoscrivere almeno una quota dell’aumento di capitale pari al 4% attualmente posseduto (che potrebbe salire al 7% in virtù di conversione degli obbligazioni convertibili residui) più eventualmente la parte che rimanesse inoptata dal mercato. Se l’aumento fosse di 3 miliardi e il tesoro dovesse sottoscriverne 1/3 avremmo un altro miliardo. Anche qui non si tratterebbe di una perdita immediata, perché la banca ripulita potrebbe veder poi crescere il suo valore.
Nel terzo passaggio i soldi pubblici non vanno apportati, ma eventualmente potremmo vedere la restituzione di quanto prestato sperabilmente con qualche utile.
Quali conclusioni trarre? Non è possibile stimare ad oggi un costo del salvataggio perché esso dipenderà dal valore di trasferimento delle sofferenze e dalla valutazione che i mercati attribuiranno all’istituto dopo la pulizia. Quel che però si può già dire è che non si parla al momento di conversione di obbligazioni in azione né di coinvolgimento degli obbligazionisti subordinati, che tradotto, vuol dire che per non scontentare alcune decine di migliaia di elettori (in alcuni casi impropriamente indotti ad acquistare prodotti non adeguati al loro profilo di rischio, ma quella è un’altra storia) il rischio di tutta l’operazione ricadrà sui contribuenti.
Stiamo assistendo al finale di quella che, rubando le parole a una canzone di De Andrè, è “una storia sbagliata” fatta prima di politici che, nominando amministratori su basi diverse dal merito o dalla capacità, hanno distrutto valore per miliardi ai danni del territorio di riferimento delle fondazioni bancarie e di migliaia di piccoli risparmiatori (che avevano anche tramite fondi azioni della banca); poi di altri politici che, per limitare i danni (o per minimizzare la perdita di consenso, fate voi) stanno socializzando il rischio connesso alla cattiva gestione pregressa.
Forse, la principale lezione che questa storia ci insegna è che il miglior modo di tutelare i cittadini e i risparmiatori è proprio quello di tenere il più possibile la politica lontana dall’economia, in modo che se un’impresa è mal gestita sia univocamente individuata la responsabilità e che il prezzo e le conseguenze di questa ricadano solo sui responsabili e non sulla collettività.