Un disco che condensa i ritmi africani, le voci, i linguaggi e il songwriting occidentale, per un’opera che si può definire “pop urbano globale”. La band guidata da Marcus Mumford, che in passato si è imposta al grande pubblico per la capacità di forgiare ballate coinvolgenti che sembrano provenire da un’altra epoca, dopo aver spiazzato con la svolta elettrica dell’ultimo album Wilder Mind, ha cambiato nuovamente pelle. Nonostante i ritmi e le inflessioni afro la facciano da padrone – e il banjo è di nuovo messo da parte – il disco suona sempre in stile Mumford & Sons, facendo intravedere le possibili direzioni che la loro musica potrà intraprendere nel futuro prossimo.
Intanto, durante il concerto di chiusura del loro tour europeo tenuto a Milano lo scorso 4 luglio, ha fatto irruzione “un amico italiano”, il pianista Ludovico Einaudi, chiamato sul palco dal tastierista della band Ben Lovett: già in maggio c’era stato un incontro fra la band e il pianista, quando entrambi si trovavano a Helsinki. Il risultato? Il compositore torinese è stato accolto dal pubblico come fosse una rockstar; i Mumford & Sons, invece, hanno forse una strada in più da percorrere.