Siamo costretti ad usare questi termini, perché ormai i confini della semplice spettacolarizzazione sono stati sorpassati da tempo. Non mi dilungherò, perché di parole ne sono state dette tante. Troppo spesso in maniera imprecisa e, in particolar modo, troppo spesso a sproposito.
Abbiamo detto praticamente quasi tutto sull’argomento terrorismo, che si tratti di attacchi di matrice islamica o scaturiti da ragioni differenti. Abbiamo parlato dei problemi legati all’esclusione sociale; abbiamo parlato di quelli legati alle polveriere di rancori che costituiscono le periferie delle grandi città d’Europa, al tempo stesso cuore del continente e pianeti lontani anni luce dal benessere del centro delle capitali; abbiamo parlato della natura endogena della minaccia terroristica, di come questi mostri siano il prodotto di un disagio interno al nostro continente che poi, in buona parte dei casi, si fa affascinare tanto facilmente quanto superficialmente da un certo tipo di propaganda bellicista e/o di carattere religioso il cui obiettivo è la semplice distruzione della nostra cultura e del nostro stile di vita per come lo conosciamo. Pochi grandi disegni, molte schegge impazzite che – singolarmente o in piccoli gruppi – provano a mettere a repentaglio conquiste di civiltà che abbiamo impiegato decenni a raggiungere e metabolizzare, e forse non ancora per tutti e non ancora del tutto. Conquiste di civiltà che, prima di tutto, sono conquiste di libertà.
Abbiamo detto tanto e le parole stanno quasi per finire. Cosa dire di fronte a un evento del genere? Ancora in Francia, ancora in un Paese il cui volto viene continuamente sfregiato da eventi del genere ormai da gennaio 2015 ad oggi. Charlie Hebdo, il negozio kosher, lo Stade de France, il Bataclan, ora Nizza. Di parole ne saranno anche rimaste poche, ma il cattivo gusto di speculare su tali eventi per accaparrarsi qualche visualizzazione o like in più resta, e peggiora di volta in volta.
I confini del triangolo notizia-solidarietà-speculazione pura diventano sempre più indefiniti. Quando finisce l’informazione e comincia la pornografia del dolore? Un culto del ripugnante che prende forma in due modi. Il primo è quello più immediato e diretto, cioè la diffusione di foto e video che non aggiungono nulla alla notizia che viene già data, ma semplicemente devono impressionare il lettore con una mole di dettagli (in particolar modo visivi e visibili) che non contribuirà in alcun modo alla formazione di un pensiero critico partendo da una notizia, ma semplicemente soddisferanno il gusto per l’orrido di chi ci cliccherà sopra.
Attenzione: con ciò non intendo dire che a prescindere sia sbagliato pubblicare un certo tipo di prove e immagini – se così fosse, probabilmente non verremmo a conoscenza delle forme e modalità in cui avvengono tragedie in giro per il mondo ben più lontane da noi di Nizza e Parigi. Il problema sta nella viralità, nella smania di far circolare un minuto di video amatoriale con i cadaveri nudi sull’asfalto delle prime vittime degli attacchi, nella tendenza a condividere e ricondividere queste immagini perché bisogna vedere, altrimenti non ci si rende conto di quel che è successo. Ebbene, ciò non è altro che una corsa ad alzare l’asticella dell’indignazione sempre di più. Assuefatti a un certo tipo di violenza, serve vedere qualcosa di ancora più scioccante per essere consapevoli di ciò che è accaduto (e, anche qui, bisogna vedere quando finisce la consapevolezza e quando comincia il semplice cattivo gusto). Abbiamo veramente bisogno di un filmato girato col cellulare per renderci conto della gravità della situazione quando muoiono più di ottanta o centoquaranta persone accanto a casa nostra?
Il secondo modo è un passo avanti rispetto al primo, ma mira a colpire nell’intimo in maniera ancora più decisiva. Si tratta di un sentimentalismo “d’opinione” – sui social e non solo – oltre ogni confine della decenza che quasi vuole costringerti a piangere, a farti sentire la testa della madre che ha appena perso sua figlia premere sulla tua spalla, a instaurare un dialogo immaginario in stile ‘seduta dall’analista’ con il folle che ha compiuto l’insano gesto. Parole su parole che sì, in questo caso senza eccezioni, non danno assolutamente alcun aiuto al lettore nella formulazione di un’opinione che sia veramente consapevole e permetta di analizzare i fatti con contezza, ma suonano più come un semplice esercizio di scrittura o un atto di autoerotismo di parecchio lontano dai confini del giornalismo.
Sono morti tanti innocenti, stiamo provando a capire come e perché, un Paese e un continente sono in stato di allerta massima. Un appello alla popolazione: risparmiateci la visione superflua e gratuita di corpi feriti sul ciglio delle strade e una compassione vuota ed esibizionista. Parliamo se c’è qualcosa di sensato da dire, condividiamo se le informazioni sono utili e attendibili. Per tutto il resto, un momento di silenzio e riflessione potrà essere più che sufficiente.