Quando i colonnelli golpisti turchi, seguendo un copione classico da colpo di Stato del Novecento, hanno fatto irruzione nella sede della televisione pubblica Trt, Recep Tayyip Erdogan ha mostrato di essere più al passo coi tempi rispetto a chi voleva destituirlo. Il presidente sotto attacco ha utilizzando FaceTime per collegarsi all’emittente privata CNN Turk (occupata dai ribelli subito dopo il collegamento) e parlare in diretta, invitando il suo popolo a “resistere”. Del resto il premier turco conosce benissimo il potenziale delle nuove tecnologie e dei social network: non a caso da quando è al potere tenta in tutti i modi di oscurarli.
Molti commentatori hanno inoltre notato il paradosso, andato in scena in contemporanea al tentativo di golpe ad Ankara, di Erdogan e i suoi alleati costretti a usare i tanto osteggiati Twitter e Facebook per riuscire a comunicare con i propri militanti. Il profilo ufficiale della presidenza turca ha infatti continuato a twittare frasi incoraggianti attribuite a Erdogan durante la fase di massima concitazione.
President Erdoğan: ” I call on everyone to go to city squares and airports. I also will be with them”
— Turkish Presidency (@trpresidency) 16 luglio 2016
E il sindaco di Ankara, Ibrahim Melih Gökçek, ha usato lo stesso social network per invitare i cittadini fedeli al premier a scendere in piazza:
Herkes sokağa…PARALELİ BOĞALIM… — İbrahim Melih Gökçek (@06melihgokcek) 15 luglio 2016
Un gesto che è stato interpretato da molti come un segno di debolezza. Eppure Erdogan è riuscito in quel modo ad inviare ai suoi sostenitori messaggi rassicuranti che poi si sono dimostrati veri: “Sono ancora io il presidente”, “I responsabili pagheranno un prezzo salatissimo”.
Per contrappasso, le circostanze hanno dunque portato proprio Erdogan a mostrare al mondo quanto potere risieda nei mezzi che in passato ha tante volte tentato di censurare. Limitati per il popolo, i social network consentono invece un potere suppletivo per chi ne dispone liberamente. I militari congiurati contro Erdogan, che tra l’altro hanno usato Whatsapp per comunicare tra di loro, avrebbero solo provato, secondo le agenzie di stampa, a rallentare il traffico dei social media. Una misura insufficiente. Facebook, Youtube e Twitter hanno comunque smentito la voce circolata sul web secondo cui vi sia stato un totale oscuramento delle loro piattaforme.
We have no reason to think we’ve been fully blocked in #Turkey, but we suspect there is an intentional slowing of our traffic in country.
— Policy (@policy) 15 luglio 2016
Del resto neppure Erdogan è mai riuscito a oscurare del tutto i social network. Le sue uscite contro il web appaiono più che altro un utile strumento di propaganda. Il 21 marzo 2014, dopo quella che i critici definirono “legge bavaglio”, in brevissimo tempo furono diffuse online le istruzioni per aggirare il blocco e una serie di hashtag anti-censura, su tutti #TwitterIsBlockedInTurkey, divennero trending topic in Turchia e nel mondo. Fenomeno che si è ripetuto quando il 6 aprile 2015 il premier chiuse Twitter e Youtube che avevano pubblicato le foto del pm Mehmet Selim Kiraz, preso in ostaggio dagli estremisti del Dhkp-C e poi ucciso nell’assalto delle teste di cuoio per provare a liberarlo.