Gli stili alimentari degli italiani sono in rapida evoluzione, vuoi per la crisi, vuoi per le intolleranze emergenti, vuoi per scelte di consumo più consapevoli e a volte improntate alla rinuncia. E’ boom di vegetariani e vegani: gli italiani che non mangiano carne e pesce sono il 6,5%, secondo dati Eurispes, mentre coloro che escludono del tutto dalla dieta l’uso di prodotti animali e derivati solo 0,6%. Nel complesso, oltre il 7% della popolazione nazionale. Lo mette in luce il rapporto Coop “Consumi e distribuzione” che evidenzia nuovi stili di consumo con più cibo biologico e integratori alimentari nel carrello della spesa.
Contemporaneamente sono in forte aumento gli italiani affetti da disturbi dell’alimentazione: secondo dati dell’Istituto Superiore di Sanità circa l’8% dei bambini e il 2% della popolazione soffre di reazioni avverse a uno o più cibi. E circa 7 italiani su 10 non digeriscono il lattosio, mentre 1 italiano su 100 soffre di celiachia. E i dati sulle vendite presso i punti vendita della Gdo (Grande distribuzione organizzata) confermano il trend in atto: il giro d’affari annuo dei prodotti senza glutine, si legge nel rapporto Coop, e di quelli a base di cereali alternativi al frumento (soia, kamut, farro, ecc) vale poco meno di 250 milioni di euro l’anno, con incremento dei volumi negli ultimi 12 mesi pari al 18%.
L’affare benessere, così si deve definire a livello mondiale, è infatti quanto mai “pro-attivo”: le persone diventano volontariamente clienti, per sentirsi più in forma, per ridurre gli effetti dell’invecchiamento e per evitare di diventare in futuro clienti dell’industria della malattia. Alla base del mercato del benessere vi sarebbero due fondamentali problemi legati all’alimentazione: la sovralimentazione, determinata dall’abbondante disponibilità di alimenti e dall’elaborazione industriale di cibi con elevato apporto calorico, e la scarsa nutrizione, determinata del ridotto apporto nutrizionale dei medesimi cibi industrializzati – in termini di nutrienti essenziali e catalizzatori – a fronte dell’elevato apporto calorico.
In questo scenario si colloca la promozione di diete e di nuovi regimi alimentari, pubblicizzate spesso come vere e proprie panacee: dalla dieta chetogenica alla metabolica, da quella paleolitica, alla dieta vegana o macrobiotica, alle diete propriamente dimagranti come la dieta Dukan, la dieta zona, la Weigth watchers, fino ad arrivare ai regimi alimentari più estremi e stravaganti, come la dieta vegetariana crudista, che prevede regole davvero dure da rispettare. Parliamo comunque di un business globale che raggiunge almeno i 500 miliardi annui.
Dal 1980, scrive l’Organizzazione mondiale della sanità, il tasso di obesità è raddoppiato. All’incirca il 38% della popolazione dai 20 anni in su è sovrappeso, il 12% è obeso. Ma i grassi non sono pigri e compiacenti con le loro condizioni. Anzi: provano vergogna e fanno di tutto per perdere peso. Molti di questi, classificati come “sovrappeso”, sono quasi in dieta perpetua, e lo stesso vale per l’altra metà della popolazione, la maggior parte della quale non ha neanche bisogno di perdere un grammo.
Da quando temi come obesità e salute sono entrati nel mirino dell’opinione pubblica, l’industria del cibo ha preso nota. Ma non esattamente nel modo in cui si potrebbe immaginare. Alcuni dei grandi giganti globali del cibo hanno optato per fare qualcosa di ovvio: hanno deciso di fare i soldi con l’obesità investendo nell’industria delle diete. Weight watchers è stata comprata dalla Heinz nel 1978, che a sua volta l’ha rivenduta nel 1999 alla società di investimento Artal. Poi arrivò Slimfast, un cibo liquido sostitutivo inventato dal chimico e imprenditore Danny Abraham, acquistato dalla Unilever, proprietaria a sua volta del brand Ben&Jerry e delle salsicce Wall’s. Il marchio americano delle diete per eccellenza Jenny Craig è passato invece nelle mani della multinazionale Nestlé, che vende anche cioccolato e gelati. Non a caso la Nestlé si trova spesso al primo posto nella classifica delle 500 compagnie più ricche al mondo stilata da Fortune.
In poco tempo queste multinazionali si sono lanciate nel mercato della perdita di peso, includendo nel loro business anche palestre, home fitness, diete alla moda o diete “urto”, magazine e dvd. Sembrerebbe ci sia un paradosso in tutto questo discorso: le multinazionali del cibo hanno l’obiettivo di vendere cibo. E creando l’ossimoro del cibo dietetico, qualcosa che tu mangi per perdere peso, si entra in un circolo vizioso da cui è impossibile uscire. I cibi dietetici altamente trattati nascono ogni giorno come i funghi, spesso con più zucchero o grassi degli originali non light.
E in questa frase c’è la chiave di tutto questo discorso: “Da intendersi come parte di una dieta calorica controllata”. Quante volte l’avrete letta sulle confezioni? Così finiamo per comprare anche un burroso gateau con uova e prosciutto se sopra c’è scritto light, convincendoci che ci farà mantenere la linea. Le compagnie che prima hanno fatto i miliardi facendoci ingrassare ora continuano a rimpinzarsi di dollari sfruttando l’epidemia dell’obesità, illudendoci di farci dimagrire.
Flaminio de Castelmur per @SpazioEconomia