Le lavoratrici hanno perso il posto nel 2014, dopo l'operazione Etihad. Poi il tribunale ha imposto il loro ritorno al lavoro, che però non è mai avvenuto: l'azienda le ha messe nuovamente alla porta, spiegando che le loro attività "sono state automatizzate". Il sindacalista Cub: "La società punta a convincere chi fa ricorso ad accontentarsi di un indennizzo di poche mensilità". La società farà appello alle reintegre e precisa che si tratta di "un numero molto limitato di casi"
Licenziate, reintegrate e rilicenziate dopo pochi mesi. Senza essere tornate al lavoro neanche per un giorno. Questa la parabola di tre dipendenti di Alitalia, che hanno perso una prima volta il lavoro ai tempi dell’operazione Etihad e hanno ricevuto una seconda lettera di licenziamento a fine giugno. Sono state mandate a casa pochi giorni prima dell’ultimo scontro tra azienda e sindacati, con i dipendenti in sciopero contro i licenziamenti e il peggioramento delle condizioni di lavoro e il presidente Luca Cordero di Montezemolo che li ha accusati di difendere privilegi immotivati. “Tutta questa operazione serve a fare da deterrente, a spaventare i dipendenti che hanno fatto ricorso contro la decisione dell’azienda e costringerli ad accettare proposte di conciliazione da qualche mensilità di stipendio”, afferma Antonio Amoroso, sindacalista Cub Trasporti. La compagnia, invece, motiva lo scioglimento del contratto spiegando che le attività svolte dalle lavoratrici sono state automatizzate e non sono più necessarie. E aggiunge che farà appello alle sentenze di reintegro, specificando che si tratta di un “numero molto limitato di casi”.
L’odissea delle tre donne è cominciata nel novembre del 2014. Lavoravano all’aeroporto di Linate occupandosi dell’assistenza agli equipaggi: piloti, hostess e steward che si fermavano allo scalo milanese potevano contare su di loro per ogni tipo di esigenza. Poi è arrivato l’accordo con gli emiratini, che a fine 2014 ha messo alla porta mille dipendenti. Tra di loro anche le lavoratrici di Linate. Il tribunale di Roma ha poi definito quell’intesa, firmata dai sindacati Cisl, Uil e Ugl, “contraria alla legge e al diritto dell’Unione europea”.
Le dipendenti hanno impugnato i licenziamenti, con il patrocinio dell’avvocato Andrea Bordone. E per motivi diversi, sono state tutte reintegrate. Le sentenze che imponevano il ritorno alle loro mansioni sono arrivate tra ottobre 2015 e febbraio 2016. Ma le signore, di fatto, non hanno più messo piede in aeroporto. A fine giugno, infatti, sono arrivate le nuove comunicazioni di recesso dal rapporto di lavoro. A ricevere il preavviso erano state in quattro, ma una di loro è in maternità e non può essere licenziata. “Le attività alle quali era addetta a Linate presso Alitalia Cai spa non sono attualmente presenti in Alitalia Sai spa”, si legge nella missiva: l’azienda spiega che lo sviluppo di un’applicazione informatica e dell’automatizzazione di un sistema di gestione degli equipaggi “ha fatto venire meno l’esigenza dello svolgimento delle suddette attività” da parte delle dipendenti. Che ora annunciano l’intenzione di fare nuovamente ricorso. Dall’azienda, invece, fanno sapere che le sentenze di reintegro sono “un numero molto limitato di casi”, meno di quaranta, la maggior parte dei quali hanno trovato una soluzione.
Il sindacato nel frattempo sta valutando, con i legali, “se ci siano gli estremi per considerare questi provvedimenti come licenziamenti ritorsivi“. “Temiamo che l’esempio di Milano sia seguito da altri casi”, spiega Amoroso. Sugli esuberi dell’operazione Etihad, infatti, sono partite centinaia di cause. A gennaio l’azienda, secondo il Corriere della Sera, contava 260 vertenze legali aperte: ora la società sostiene che le cause si sono ridotte a circa cento.
Sulla pratica di rilicenziare lavoratori reintegrati, è intervenuto anche il sindacato Filt Cgil, che il 15 luglio ha mandato una lettera alla commissione Lavoro della Camera, presieduta dal deputato Cesare Damiano. “Il caso più delicato che le sottoponiamo attiene ai lavoratori che, dopo la sentenza positiva di reintegra non sono rientrati al lavoro, non sono stati risarciti del danno economico previsto nella stessa sentenza e nell’arco di poche settimane sono stati licenziati per giustificato motivo oggettivo”, scrive la sigla sindacale. I dipendenti, si legge nella lettera, hanno così perso “il diritto alla mobilità, al biennio integrativo e perfino, non avendo nel frattempo versato alcun contributo, il diritto a percepire la Naspi. Evidentemente un uso cinico delle previsioni di legge sui licenziamenti individuali ha ribaltato le condizioni di tutela previste dalla legge”.
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