Da rimpatriare anche il personale militare Usa, circa duemila uomini, e tutto il materiale e i mezzi militari. Problema logistico che dovrebbe affrontare anche l'Italia, che poche settimane fa ha schierato in Turchia 130 miliari e una batteria di missili terra-aria
La Turchia è membro dell’Alleanza Atlantica dal 1952 e la base Nato turca di Incirlik ha sempre rivestito un’importanza strategica cruciale, fungendo da avamposto americano contro l’Urss durante la Guerra Fredda e da trampolino di lancio delle missioni aeree Usa nelle due guerre in Iraq e nell’odierna campagna anti-Isis. In questa base, soprattutto, è custodito un quarto dell’arsenale nucleare di deterrenza della Nato. Nei bunker di Incirlik sono stivate almeno cinquanta bombe all’idrogeno B61 delle circa duecento affidate ai cinque alleati (Italia, Germania, Belgio, Olanda e appunto Turchia) che aderiscono alla dottrina Nato del ‘nuclear sharing‘ – per cui i bombardieri di questi Paesi (per l’Italia i Tornado oggi, gli F35 domani) potrebbero essere chiamati a sganciare questi ordigni in caso di conflitto.
In caso di cacciata della Turchia dalla Nato, queste bombe andrebbero rimosse o neutralizzate. Del resto non sarebbe la prima volta per la Turchia, alleato nucleare sempre ritenuto poco affidabile nei momenti di alta tensione. Dopo la crisi dei missili con Cuba del 1961, gli americani temevano che i turchi decidessero autonomamente di lanciare bombe nucleari contro l’Unione sovietica, quindi ordinarono ai militari di stanza ad Incirlik di inserire dei codici di sicurezza per l’attivazione delle testate noti solo agli americani. Nel 1974, dopo l’invasione turca di Cipro, gli Stati Uniti decisero che addirittura di sabotare le bombe affidate alla Turchia rendendole inservibili. Vista la difficoltà di rimuovere fisicamente le bombe in caso di tensione, una loro neutralizzazione sarebbe la soluzione più rapida e sicura. Sempre che non sia già stata fatta durante il tentato golpe.
Più difficoltoso sarebbe invece rimpatriare il personale militare Usa rimasto ad Incirlik, circa duemila uomini, e tutto il materiale e i mezzi militari. Questo sarebbe un problema logistico che dovrebbe affrontare anche l’Italia, che poche settimane fa ha schierato in Turchia 130 miliari e una batteria di missili terra-aria Samp/T nella base di Kahramanmaras, 90 chilometri dal confine siriano, nell’ambito dell’operazione Nato ‘Defensive Fence’ lanciata nel 2013 per proteggere lo spazio aereo turco dalle minacce provenienti dalla Siria, ma anche dalla Russia. L’Italia aderisce a questa operazione (al costo di 7 milioni di euro) insieme a Stati Uniti, Germania, Belgio, Olanda e Spagna. Che la Turchia esca o meno dalla Nato, per l’Italia si pone oggi comunque un urgente problema politico che il governo dovrebbe affrontare.
Può il regime di Erdogan, responsabile in queste ore di gravi violazioni di diritti umani e civili e da tempo di orrendi crimini di guerra contro la minoranza curda, continuare a essere uno dei principali destinatari dell’export militare italiano in aperta violazione della legge 185 che vieta di armare dittature e paesi in guerra? Le esportazioni di armamenti italiani alla Turchia sono quasi triplicate nell’ultimo anno (129 milioni di euro di autorizzazioni nel 2015 contro i 53 milioni del 2014). Per non parlare del megacontratto da un miliardo e mezzo di euro di Finmeccanica per la fornitura in coproduzione (che prosegue da anni) di 60 elicotteri da combattimento T129. Per la cronaca, non è escluso che siano stati questi elicotteri ‘made in Italy’ a sparare sulla folla durante il tentato golpe.