Gianmarco Vassalli, 26 anni, milanese, in Colombia ha fatto un master in cooperazione, e lì gestisce appartamenti di lusso a Cartagena, soprattutto destinati ai "gringos". Prima di arrivare in Sudamerica, ci sono stati gli Stati Uniti, il Servizio volontario europeo tra Tunisia e Marocco e Marsiglia. "Famiglia e casa mi mancano, ma dopo qualche giorno in Italia ho già voglia di tornare"
Questa la telefonata che gli è arrivata all’una di notte qualche giorno fa: “Per favore mandami a casa due ragazze, nere e con le tette rifatte. E tre grammi di coca. Mi raccomando, che le ragazze siano nere. Anche mulatte va bene, ma non bianche”. Al telefono, un gringo in cerca d’evasione, prototipo umano di cui Cartagena de Indias, città colombiana sul Mar dei Caraibi, abbonda. Nonostante il disappunto per essere stato svegliato e il tenore della richiesta, Gianmarco Vassalli, 26 anni, milanese, un master in Cooperazione Internazionale appena conseguito alla Escuela de Cooperación Internacional para el Desarrollo, non si è scomposto: “Ho detto al tizio che quel per quel genere di servizi si sarebbe dovuto rivolgere altrove e sono tornato a dormire”, racconta.
Per uno come lui, interessato ai problemi della povertà e del neocolonialismo, il lato peggiore del lavoro da property manager di 52 appartamenti nel centro storico Cartagena, è proprio quello dei gringos, americani arroganti che rappresentano una buona fetta degli ospiti con cui ha a che fare. “Arrivano in gruppi di due o tre, per pochi giorni; del resto da New York sono quattro ore e mezza di volo, da Atlanta o Houston quattro. Di Cartagena gli interessa poco, passano metà del tempo in piscina o a guardare la tv. Qui le donne sono bellissime, quello che cercano è il sesso facile”, spiega.
Da quando il governo colombiano ha usato la mano pesante con la criminalità urbana e ha avviato un processo di pace con i guerriglieri delle Farc, Cartagena, città affacciata sul Mar dei Caraibi, con un centro coloniale dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, è diventata una meta di primo livello. L’anno scorso si è piazzata al secondo posto nella classifica di Tripadvisor tra le destinazioni più in crescita. Se sei sveglio e parli le lingue, un lavoro lo trovi. Gianmarco di lingue ne parla cinque e nonostante la giovane età, ha abbastanza esperienza del mondo per saperci fare con la gente. E infatti i due soci newyorkesi che hanno avviato il business degli affitti per turisti di case di lusso, un ex manager della banca d’affari Morgan Stanley e un investitore immobiliare, se lo tengono buono. E’ l’unico dei loro dipendenti a cui permettono di abitare gli appartamenti quando non sono occupati e che invitano in barca quando fanno una gita sulle isole di fronte alla costa. Quello da property manager è solo l’ultimo di una lunga serie di lavori con cui, da quando ha 22 anni, Gianmarco vive, studia e si mantiene all’estero.
“Ho capito che m’interessava vivere in paesi stranieri da quando sono andato a Philadelphia a fare il penultimo anno di liceo. L’esperienza negli Stati Uniti in realtà è stata una delusione: il sistema scolastico fa pena, io non studiavo niente e prendevo tutte A ma, soprattutto, è un ambiente classista e razzista. Non ho fatto vere amicizie”. Dopo la maturità va per tre anni a Londra, a studiare Relazioni internazionali e Business. Lo mantengono i genitori, ma il suo obiettivo è l’indipendenza. L’ultimo semestre di università lo può fare in un altro paese. Va in Australia. Un’altra mezza delusione. Ottenuto il bachelor’s degree (laurea triennale), con una tesi sul colpo di stato in Guatemala del 1954 organizzato dalla Cia, va dove vuole davvero: “Nei posti in cui c’è meno ricchezza materiale e più ricchezza umana”. La scelta è il volontariato.
Nel 2011 vince un bando dello Sve, Servizio volontario europeo, un organismo della Commissione Europea, quattro mesi nelle zone rurali della Tunisia. Solo che nel frattempo è esplosa la rivolta della “primavera araba” e lo Sve lo manda a Rabat, in Marocco, zona più tranquilla. “Tenevo corsi d’italiano e inglese nelle scuole e facevo animazione teatrale in un orfanotrofio”. Finalmente sono relazioni umane autentiche e gratificanti. “Abbiamo molti pregiudizi sul mondo arabo. E’ una cultura con un grande senso della comunità e della solidarietà. Se si guarda oltre gli estremismi, fenomeni che comunque si trovano in tutto il mondo, è una società molto più aperta di come i media occidentali di solito la descrivono”.
Finito il progetto decide di restare. Trova un primo lavoro retribuito. Dall’aprile 2012 all’aprile 2013 collabora con un’università privata di Rabat. Ma la paga non basta e Gianmarco, che nel frattempo ha imparato l’arabo, si butta nei lavori più diversi: comparsa in serie televisive e spot pubblicitari, collaboratore di progetti dell’Istituto italiano di cultura e, racconta ridendo, venditore di incenso, corani e coltelli da cucina nella Medina. “Ho preso un banchetto insieme a un ragazzo marocchino, abbiamo comprato la merce con un prestito e ci siamo messi a vendere. Non abbiamo guadagno niente, forse siamo andati in pari”.
Il Marocco lo lascia nell’estate 2013 per seguire una ragazza a Marsiglia. Ma né il lavoro che trova lì, al Museo delle arti mediterranee, né il rapporto con la ragazza, durano. E così torna in l’Italia a domandarsi che fare. “A Milano ho la famiglia, a cui tengo moltissimo. Ma non volevo restare, mi sembrava di finire sempre negli stessi circuiti, nei discorsi da bar sempre uguali. Quello che volevo fare era riprendere a studiare e conoscere l’America Latina”. L’occasione per ripartire gliela segnala la mamma: un master in cooperazione tenuto dell’Escuela de Cooperación Internacional para el Desarrollo all’Università San Buenaventura di Cartagena, fondata dai francescani nel 1708. Fa parte di un network sulla cooperazione creato dall’Università di Pavia. “Ho fatto un colloquio e mi hanno accettato, con una borsa di studio”.
In Colombia si ambienta in fretta. Grazie all’università, inizia una collaborazione col dipartimento corporate social responsibility della Tenaris, gruppo italiano leader nei tubi per l’industria petrolifera, programmi sociali nelle aree vicine all’impianto di Cartagena. Questo fino al febbraio scorso quando, causa la crisi del petrolio, l’azienda riduce le attività sociali in Colombia. Ma di relazioni anche qui Gianmarco ne ha allacciate parecchie e in breve è di nuovo al lavoro, come property manager. Può lavorare in regola, assicurazione malattia e tutto il resto, perché sta con una ragazza colombiana e gli hanno dato il visto di “unione libera”, un istituto simile alle nostre unioni civili, solo più semplice da ottenere.
La Colombia è piena di problemi, basta uscire dalle mura coloniali di Cartagena per trovare povertà e degrado. La prostituzione fa parte del quadro e anche la chirurgia estetica, diffusissima. “Sopravvive forte un modello di subordinazione della donna”, spiega Gianmarco, “seno e sedere rifatto per molte ragazze sono un investimento su sé stesse. E’ un fenomeno portato dalla cultura machista dei traquetos, i narcotrafficanti; gli pagano le operazioni per renderle, secondo i loro canoni, più attraenti”. La cosa poi attrae anche i gringos in trasferta a Cartagena; sempre cultura dello sfruttamento, più sviluppata.
Ma la Colombia è anche un paese pieno di vita, la gente ha il sorriso facile e a Cartagena, almeno quella dove vive ora Gianmarco, si sta bene. Lui, nonostante il dispotismo dello smartphone che si illumina e vibra in continuazione, trova il tempo di ballare la salsa, vedere amici, cantare in un gruppo di champeta, musica afrocaraibica.
Il suo campo di specializzazione, quello in cui ha appena preso il master, è la South-South cooperation, un modello di cooperazione orizzontale tra paesi in via di sviluppo, alternativo a quello paternalistico e politicamente orientato, degli aiuti calati dall’alto dai paesi ricchi. Chiaro che gestire arrivi, partenze, e le più svariate grane degli ospiti di 52 appartamenti di lusso per turisti non è l’obiettivo della sua vita. Non intende farlo a lungo. Ma è un lavoro che ha dei vantaggi; prima di tutto quello di guadagnare a sufficienza per mantenersi. “Prendo 750 dollari al mese, che qui non sono pochi”. E’ un po’ una vita da nomade cittadino, ogni tre quattro giorni fa i bagagli, ma il centro della città è piccolo, abita case confortevoli e non pagare l’ affitto è come un extra reddito. Alla fine gli rimane abbastanza per un paio di viaggi l’anno in Italia. “La casa e la famiglia a volte mi mancano, ma dopo qualche giorno in Italia non vedo l’ora di ripartire. Non penso che possa darmi, almeno per ora, quel che cerco a livello di relazioni e di prospettive”.