Dalla culla alla bara: è la welfare tv, che con i suoi docureality ormai segue e racconta tutti gli avvenimenti principali dell’esistenza umana. Questa volta, il nuovo programma di Real Time (prodotto da due noti critici televisivi del web ora passati dall'altra parte della barricata) racconta il rito di passaggio dall'infanzia all'età adulta nei paesi latinoamericani
From cradle to the grave, dalla culla alla bara. No, non è la famosa frase del Beveridge Report che, di fatto, fondò il welfare state inglese. Molto più semplicemente, è la welfare tv, che con i suoi docureality ormai segue e racconta tutti gli avvenimenti principali dell’esistenza umana: nascite, diciottesimi, matrimoni, persino funerali. Ne abbiamo viste di ogni tipo, in questi anni di boom del genere televisivo a cui facciamo riferimento. La Quinceañera però no, non ce la aspettavamo, anche perché dobbiamo ammettere che fino qualche ora fa non sapevamo neppure cosa fosse esattamente.
Lo abbiamo scoperto grazie all’omonimo programma andato in onda domenica sera in prima serata su RealTime, prodotto dalla MediaMai di Davide Maggio e Mattia Buonocore (noti critici televisivi del web ora passati dall’altra parte della barricata) e da Toro. Si tratta, in pratica, di una tradizione latinoamericana che consiste in una grande festa per i quindici anni di età di una ragazza. Avete presente la festa per i nostri diciotto anni? Bene, elevatela all’ennesima potenza, aggiungente una dose massiccia di tradizioni popolari latinoamericane e guarnite il tutto con un vestito di cerimonia da principessa di una fiaba un po’ tamarra.
La Quinceañera, che in realtà è proprio colei che compie quindici anni, è dunque la celebrazione di un rito laico (a parte in Messico, dove è anche religioso, visto che si tiene in chiesa), un passaggio dall’infanzia all’età adulta fatto di precisi passi da rispettare nel corso della festa, con un simbolismo tipicamente sudamericano e suggestioni interessanti, soprattutto se viste con gli occhi dello spettatore italiano. Ma Maggio e Buonocore dove saranno mai andati a riprendere le feste in questione? In Ecuador? In Perù? In Bolivia? Nossignore, in Brianza, visto che in Italia esiste una nutrita e organizzata comunità sudamericana che per troppo tempo, colpevolmente, abbiamo praticamente ignorato. Non hanno l’appeal della stretta attualità come gli arabi o i musulmani in generale, non è facile addossare a loro colpe terribili di cose che magari succedono a migliaia di chilometri di distanza. E allora niente, giornali, opinion leader e politici non hanno mai voluto o saputo conoscere meglio una comunità ampia e ricca di sfaccettature. I media se ne occupano solo raramente e solo quando c’è da parlare di una gang di latinos magari violenti, che rubano il cellulare ai ragazzini nelle stazioni della metropolitana della periferia milanese. I sudamericani ci interessano solo quando possiamo incasellarli nella cronaca nera o giudiziaria, altrimenti nisba.
E il merito principale de La Quinceañera è proprio quello di raccontare la vita quotidiana di una famiglia normale, che a furia di sacrifici e lavori massacranti si è integrata nella realtà italiana ma non per questo vuole perdere i propri legami culturali e simbolici con la cultura d’origine. La festa dei quindici anni non è un semplice party a base di alcoolici, torta e brani riempipista. È davvero il passaggio da un’età all’altra della vita, e il tutto è raccontato secondo l’usuale approccio latino allo sviluppo anagrafico, ma anche sociale e, perché no, sessuale della quindicenne in questione.
Domenica sera, nella prima puntata del programma, è stata raccontata la storia di Anggie, da pochi anni arrivata insieme a fratelli, sorelle e papà dall’Ecuador in Italia, dove hanno raggiunto la madre che viveva in Brianza già dal 2001. Anggie non ha nulla a che vedere con le ragazzine italiane di quasi diciott’anni che abbiamo conosciuto ne Il Boss dei Prediciottesimi su La5: Anggie ha meno grilli per la testa, è più matura, non chiede ai genitori di spendere migliaia di euro per un video ultratrash da sfoggiare con gli amici, fingendo di essere una top model senza accorgersi di oltrepassare, e di molto, il confine del senso del ridicolo. Anggie è una giovanissima donna che sa bene cosa rappresenta per la propria cultura quel passaggio. Lo sanno anche i genitori, che con enormi sacrifici mettono su una festa con tutti i crismi, con tanto di abito rosa confetto con corpetto di pizzo cucito dalla madre nei ritagli di tempo tra il lavoro come colf e le faccende quotidiane in casa. Anggie arriva alla festa in pantofole, perché uno dei rituali da seguire è il cambio di calzature per mano dei padrini: via le pantofole, ecco arrivare i tacchi alti, primo segno di una maturità sancita ufficialmente, e un make up più deciso, certamente non semplice o elegante, ma che rende bene l’idea di quello che sta succedendo.
Ora Anggie è una donna, almeno secondo la sua cultura. È un po’ presto, per i nostri canoni abituali. O almeno per le convenzioni sociali che abbiamo in mente, visto che oggi, a quindici anni, ragazzi e ragazze hanno già cominciato da qualche tempo a capire come funziona il mondo. La Quinceañera è dunque un nuovo efficace strumento che la tv ci offre per conoscere e comprendere un pezzetto della nostra società e di una comunità di immigrati alla quale dovremmo prestare maggiore attenzione. Televisivamente, il prodotto ha tutto quello che si richiede a un docureality di qualità dei giorni nostri: montaggio con ritmo, musiche scelte con perizia, il racconto sullo sfondo della realtà socio-economica della famiglia della ragazza. Sia chiaro: di trash ce n’è a pacchi. Ma è diverso dal trash per così dire autoctono. Sembra più naturale, più genuino, meno dettato dal cattivo gusto e più da una reale aderenza con le tradizioni. È un trash sopportabile, quasi sublime in certi passaggi. È un trash che oseremmo definire glocal, rispetto a quello più global e omologato di certi diciottesimi o matrimoni italiani. La Quinceañera può diventare un caso televisivo, seppur piccolo e circoscritto a un pubblico di nicchia, e dunque potrebbe e dovrebbe avere un seguito. In fondo, di quindicenni latinoamericane ce ne sono molte, soprattutto al Nord, e domenica sera abbiamo capito che raccontare i loro sogni senza trasformarli in burletta o in pacchiane ostentazioni di Dio solo sa cosa è possibile.