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Area Popolare, Schifani si dimette da capogruppo al Senato. “Udc si sfila da area governo: “Noi per no al referendum”

L'ex presidente di Palazzo Madama: "Il progetto centrista di Alfano è solo un'operazione di palazzo. Le riforme? Le votai per disciplina ma non mi fanno impazzire". Cesa: "Con la legge Boschi rischio deriva come Erdogan"

Matteo Renzi ha un problema alla sua destra. I centristi della maggioranza sembrano essere diventati improvvisamente un gruppo di schegge impazzite. Di Enrico Zanetti sanno tutti: da viceministro, ha abbandonato Scelta Civica di cui è segretario per unirsi ai verdiniani di Ala. Ma le ultime accadono ora all’interno di Area Popolare, il gruppo guidato da Angelino Alfano. Renato Schifani, infatti, si dimette da capogruppo al Senato dicendo che l’operazione di un nuovo soggetto di moderati proposta dal ministro dell’Interno è “di palazzo e non di territorio”. Caso vuole che questa decisione è arrivata pochi giorni dopo l’incontro ad Arcore con Silvio Berlusconi. Per giunta dice che le riforme “le ho votate per disciplina di partito quando non ero capogruppo. Ma è noto che non era una riforma che mi faceva impazzire”. Con Schifani invece sono Roberto Formigoni, Giuseppe Esposito e, anche se per ora in posizione più defilata, Maurizio Sacconi e Giovanni Bilardi. Nello stesso giorno l’Udc si divide tra la direzione del partito – con in testa il segretario Lorenzo Cesa e i suoi vice Antonio De Poli e Giuseppe De Mita – che decide di sostenere il no al referendum costituzionale – e due leader come Pierferdinando Casini (padre fondatore) e Giampiero D’Alia (presidente e ex ministro) che si schierano per il sì.

Schifani ha inviato una lettera a tutti i senatori di Area Popolare per comunicare le sue dimissioni. A sostituirlo dovrebbe essere Luigi Marino, già vicepresidente vicario del gruppo. “Io devo rispettare e fare i conti con la coscienza”, ha detto tra l’altro. Il problema è nella linea politica di un partito che avrebbe perso la sua missione originaria di soggetto moderato, appiattendosi sulla linea del Pd. “Il progetto centrista di Alfano non lo condivido – ha spiegato Schifani – Non mi sento attaccato alla poltrona o a posti di prestigio e lascio il mio ruolo da capogruppo perché non sono in linea con un’operazione che mi appare più da Palazzo che da territorio e non manifesta il nostro posizionamento e identità di centrodestra“. Pochi giorni fa Schifani aveva peraltro visitato Silvio Berlusconi nella villa di Arcore. “Fin quando resterò in Ncd voterò in conformità con il gruppo” ha precisato comunque Schifani. A chi gli chiede se lascerà il partito Schifani risponde: “Poi valuterò” e a chi gli chiede di un approdo in Forza Italia o con Verdini replica: “Sono totalmente estraneo a queste dinamiche”. Tra i primi ad apprezzare la decisione di Schifani sono stati i capigruppo di Forza Italia Renato Brunetta e Paolo Romani e l’esponente della Lega Nord ed ex Ncd Barbara Saltamartini.

Nella lettera ai parlamentari Schifani spiega tra l’altro di essersi trovato “a disagio nell’assistere a dichiarazioni di nostri colleghi di partito, anche esponenti di governo, che nel lanciare offese a Silvio Berlusconi, si spingevano ad affermare che non si vive di passato ma bisogna guardare al futuro, dimenticando però che potevano manifestare queste opinioni in maniera pubblica grazie ad un certo passato che aveva consentito loro di essere eletti sotto il simbolo di Berlusconi Presidente ed indicati da lui al governo”.

Sempre sul fronte dei centristi proprio oggi il segretario dell’Udc Lorenzo Cesa aveva annunciato che il partito sosterrà il no al referendum, nonostante sia nell’area di maggioranza e nonostante l’ex presidente Pierferdinando Casini abbia già assicurato l’impegno per il sì. In realtà, per il momento, non sono note le ragioni delle dimissioni dell’ex presidente del Senato da capogruppo degli alfaniani. “Il problema non è Renzi”, ha detto Cesa, ma che “con questa riforma potrebbe venire fuori un Erdogan che usa gli strumenti che abbiamo messo in piedi per fare quello che ora sta facendo Erdogan in Turchia”. Sulla stessa linea anche Ciriaco De Mita, premier negli anni Ottanta: “Le riforme sono state fatte come un provvedimento per uno, mentre le regole devono valere per tutti”.

Anche se nella maggioranza si avverte l’insidia che può arrivare dal malcontento che serpeggia tra i centristi, che come detto punterebbe soprattutto ad aprire da subito una trattativa sulla legge elettorale. Non a caso al Senato, dove gli equilibri numerici sono comunque precari, si è deciso di rinviare l’esame dei disegni di legge sulla tortura e la prescrizione, temi sui quali Ap, da ultimo ieri, aveva avanzato perplessità e distinguo. Se ne riparlerà probabilmente dopo la pausa estiva, quando il quadro sarà più chiaro anche rispetto alla data del referendum.

Ma è un’altra la riforma che sta veramente a cuore dell’ala che ritiene sia arrivato il momento di alzare il prezzo nei riguardi del governo di Matteo Renzi, vale a dire la legge elettorale. Ciò che infatti viene contestato in modo più o meno palese ad Alfano è la scelta di rinviare al dopo referendum la discussione sui cambiamenti all’Italicum, per tornare al premio di coalizione. Per l’asse che va formandosi tra Schifani e Cesa infatti, dopo un’eventuale vittoria dei sì nella consultazione potrebbe essere troppo tardi per convincere Renzi a sedersi al tavolo, per aprire la trattativa per arrivare ad un nuovo sistema di voto. Di qui allora la decisione di rompere gli indugi e di rendere palese la divisione sulla strategia migliore da seguire. Tema che sarà affrontato anche domani, quando Alfano riunirà l’assemblea dei deputati. Certo, sullo sfondo ci sono anche le prospettive dell’area di centrodestra, il rifiuto del progetto lanciato da Alfano per costruire un movimento liberal popolare, che si troverebbe ad essere il quarto o quinto polo della scena politica, senza quindi reali possibilità di competere con il Pd.