Primo giorno di riunione del partito repubblicano. Il tycoon critica "l'assenza di leadership" di Obama accusando il suo "linguaggio del corpo" che giustificherebbe i neri che sparano sulla polizia. Sul palco anche la moglie Melania, che ha raccontato come sia "meravigliosa" la vita accanto a Donald. I militanti: "L'amministrazione non difende gli agenti", "Precipita tutto e Obama se ne frega"
Mary Shelley (“Come la scrittrice?” le chiedo. “Sì, sì”, risponde lei felice) indossa una veletta a stelle e strisce che le cade sul volto. E’ una signora magra e minuta, delegata della Georgia. Mi dice che è qui per ascoltare Newt Gingrich, la sua grande passione politica: “I looove Newt”, spiega, strascicando il più possibile la o. Quando le chiedo qual è secondo lei il tema centrale di questa Convention, e dell’America oggi, non ha esitazioni: “Le relazioni razziali. Vogliamo Law and Order”, legge e ordine.
Nel primo giorno della Convention repubblicana di Cleveland sono successe alcune cose politicamente interessanti. I delegati anti-Trump, i Never Trump come si fanno chiamare, hanno cercato di ottenere un voto palese sulle procedure della Convention. Il voto avrebbe rallentato i lavori, reso palese la presenza dell’opposizione a Trump, imbarazzato il partito che vuole mostrare unità. La leadership repubblicana, alla fine, ha bloccato il tentato boicottaggio. E poi c’è stato, a fine serata, il discorso di Melania Trump, la moglie sinora rimasta nell’ombra, che dal podio ha raccontato quanto meravigliosa è la vita accanto a Donald. Proprio Donald l’ha introdotta, sulle note di We are the champions dei Queen.
Eppure il tema che emerge dal primo giorno di Convention è quello dell’America travolta dalla crisi razziale; e delle misure da prendere per evitare il baratro. Subito dopo l’uccisione dei tre agenti di Baton Rouge, Donald Trump ha criticato “l’assenza di leadership” di Barack Obama e ha chiesto “legge e ordine” per l’America. Qualche ora più tardi, a una trasmissione di Fox News, Trump è andato anche più in là. Ha spiegato che le parole con cui Obama ha condannato la morte dei tre agenti “sono ok”. Ma non è ok “il linguaggio del corpo” del presidente nel condannare la strage. Trump non ha detto molto di più, ma il senso della frase è chiaro: a parole Obama condanna l’uccisione degli agenti; nei fatti giustifica gli assassini.
E’ una logica che parte della destra americana, e settori della polizia, stanno applicando a Black Lives Matter, il movimento che in questi anni si è battuto contro la violenza poliziesca nei confronti dei neri. BLM è considerato responsabile, con i suoi attacchi agli agenti, di aver creato un clima politico favorevole agli omicidi. Poco importa che né l’omicida di Dallas né quello di Baton Rouge abbiano mai avuto qualcosa a che fare con il movimento. Come ha spiegato lo sceriffo della contea di Milwaukee, David Clarke (che ha parlato ieri alla Convention), i militanti di Black Lives Matter hanno intriso di odio la loro retorica anti-polizia; armando quindi la mano degli assassini. Obama, nel ragionamento di Trump e di buona parte dei repubblicani, farebbe lo stesso: le sue frequenti accuse al sistema legale e giudiziario americano, “vittima del pregiudizio”, come ha spiegato il presidente, avrebbero indebolito la credibilità della polizia.
“La nostra polizia è sotto attacco, questa amministrazione non la difende”, mi dice Sam Brokaw, un delegato del Montana. “In questo Paese hai tutte le garanzie possibili se sei un delinquente ma non se sei un agente”, racconta una signora che viene dal Texas e non vuole dare il suo nome. “Questo presidente doveva iniziare una nuova fase nelle relazioni razziali in America – è l’opinione di un altro delegato, John Kerr -. In realtà precipita tutto e Obama se ne frega”. L’opinione di questi delegati a Convention trova riscontro nella maggioranza degli americani. Se Obama lascia la Casa Bianca con un giudizio tutto sommato positivo sul suo operato – lo approva oltre il 50 per cento degli americani – il giudizio è molto meno favorevole se si considera il tema della race. Secondo i numeri forniti da ABC/Washington Post, il 63 per cento degli americani ritiene che la situazione razziale nel Paese sia “cattiva”. Per il 55 per cento, le cose “stanno peggiorando”.
Il sogno di un’America più benigna, quanto ad appartenenza etnica, si infrange quindi proprio alla fine della presidenza del primo afro-americano. Race Matters, la razza conta, continua a contare moltissimo in America, come recita il titolo di un libro di Cornel West. E Donald Trump e il partito repubblicano sulle paure puntano per rafforzare la loro presa sull’America bianca, su quella working-class e classe media bianca che fino a qualche settimana fa erano vittime della disoccupazione e della globalizzazione e che ora, secondo le parole di Trump, si vedono minacciate dalle nuove esplosioni di tensioni razziali. Lo sfruttamento a fini elettorali di vecchie e nuove tensioni razziali non è nuovo. Molti ricordano ancora che, nella campagna elettorale del 1980, Ronald Reagan andò a tenere uno dei suoi discorsi più importanti nella contea di Neshoba, quella di Mississippi Burning, quella dove nel 1964 i razzisti avevano ucciso tre giovani militanti per i diritti civili.
Oggi Trump fa lo stesso. Sventola il pericolo razziale. Mostra all’America bianca che il sogno della coesistenza razziale, incarnato da Barack Obama, non ha funzionato. E che lui, lui solo, può davvero garantire “legge ed ordine”.