Sono nato nel 1975 ma la mia venuta al mondo da cittadino ha una data precisa: 19 luglio 1992. Quel giorno lo ricordo come fosse ieri. Tutta la mia generazione è cresciuta con le immagini di via D’Amelio devastata da quell’autobomba trasmesse dalla Tv.
Tutti noi ricordiamo quel “E’ tutto finito, è tutto finito” pronunciato da Antonino Caponnetto.
Chi sta leggendo queste parole probabilmente è diventato grande con la foto di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, scattata da Tony Gentile, a scuola, in ufficio, a casa.
A scuola nessuno mi aveva parlato di mafia. Non lo avevano fatto nemmeno i miei genitori. Nelle nostre città del Nord non c’erano strade dedicate a Peppino Impastato o a Rocco Chinnici. La mafia era roba loro, una questione meridionale.
Ma quel 19 luglio svegliò ciascuno di noi dal torpore. Da quel pomeriggio nulla sarebbe stato più come prima. Al Nord erano gli anni di Tangentopoli: quell’Arnaldo Forlani che anni prima, da bambino, avevo visto con il petto in fuori sulla piazza del mio paese, lo ritrovavo con la bava alla bocca sugli scranni del tribunale. Gherardo Colombo, Antonio Di Pietro, Ilda Boccassini, Saverio Borrelli, erano i nostri “eroi”.
Eravamo assetati di giustizia, convinti che il nostro Paese non sarebbe mai stato più uguale. E con noi giovani c’erano Rita Borsellino, Antonino Caponnetto, Gian Carlo Caselli e altri che incontravamo negli oratori, nelle parrocchie, nelle scuole, nelle biblioteche.
In uno di questi incontri al Sermig di Torino, Rita Borsellino mi disse: “Se vieni a Palermo ti aspetto in via D’Amelio, al civico 19. Io abito ancora là”. Da quell’anno non ho mai smesso di tornare in quella strada il 19 luglio. E con me c’erano tanti altri giovani che hanno fatto camminare (meglio di me) le parole di Borsellino e Falcone sulle loro gambe.
Cristina, è una di questi. A 13 anni era in via D’Amelio. Arrivava dal Veneto ma aveva sentito quell’appello. Desiderava fare il magistrato, come loro, come i “suoi” Paolo e Giovanni. Oggi ha realizzato il suo sogno e svolge il suo compito proprio in Sicilia. Paolo, come spesso ripete la sorella, “mi accorsi che era diventato patrimonio di tutti”. E’ stato così. Un patrimonio che faceva parte anche di quei giovani che scesero in piazza per il Social Forum di Firenze e al G8 a Genova. Era un’altra Italia. Era l’Italia di chi è nato nel 1992.
Il resto è la storia di un’Italia che non è cambiata.
Sono cambiati gli italiani ma la pelle della politica, dei politici, è rimasta la stessa. Abbiamo avuto l’impressione che il 19 luglio non fosse servito, che Tangentopoli fosse da archiviare. In via D’Amelio sono tornati per anni i politici a fare la loro passerella: ho visto passare da quella strada Silvio Berlusconi che chiedeva al citofono a Rita Borsellino come si può combattere la mafia; Walter Veltroni e Dario Franceschini in tempo di primarie; Totò Cuffaro e Clemente Mastella. Quest’anno tocca a Rosy Bindi.
Restiamo noi, nati nel 1992, con un compito, con una responsabilità: non archiviare quel 19 luglio. Non lasciarlo ad un ricordo. Non leggerlo sul libro di storia. Non lasciare che sia solo un rito. Ognuno di noi, ancor più chi ha il compito di educare, ha il dovere di passare il testimone a chi è nato nel 2000.
Oggi quando guardo ad un 20enne mi chiedo: ma chi può ascoltare? Chi sono i suoi punti di riferimento?
Siamo noi. Ognuno con il suo impegno nel proprio posto di lavoro, nella sua Chiesa, nella sua associazione.
Non può esserci insegnante che non conosce quella “storia”. Anzi in ogni classe accanto alla foto del presidente della Repubblica (che nessuno spiega chi è ai nostri ragazzi) ci dovrebbe essere quell’immagine di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Ripartiamo da qui.
Aggiornato da redazioneweb