Le forze dell’ordine “stanno facendo un lavoro eccellente, che non può avere il freno derivante dall’ansia psicologica o dalla preoccupazione operativa in un contesto complesso nel quale dovrebbero venire a trovarsi”. Questa la dichiarazione di Angelino Alfano per motivare il suo freno verso la legge che renderebbe la tortura un reato specifico in Italia e che il ministro dell’Interno vuole ancora modificare prima dell’approvazione. Punire la tortura costituirebbe un’ansia psicologica.
Il disegno di legge è attualmente in discussione al Senato, che già ha modificato il testo proveniente dalla Camera aggiungendo una parolina magica: reiterate. A cosa si applicherebbe tale qualificazione? Alle violenze che una persona deve subire affinché esse possano venire indicate quale tortura. Un pestaggio ben fatto, orchestrato da più persone (una cosiddetta ‘squadretta’ ad esempio) in modo che a ciascuno possa venire imputato un unico atto violento, non basta a configurare il reato. Ma questo per Alfano non è ancora sufficiente. Auspica che altre modifiche vengano introdotte alla Camera, così da svuotare ancora di più di significato una legge che le Nazioni Unite – non i centri sociali o le teste calde – ci chiedono da decenni.
E noi, da decenni, discutiamo di come definire la tortura. E, da decenni, la legge viene affossata da chi sostiene che una definizione troppo stretta legherebbe le mani agli agenti, che devono pur fare il loro dovere e un po’ di violenza – seppur senza reiterare – la devono pur usare. E così ci ritroviamo Genova, Asti, Stefano Cucchi e tutti gli altri. E le impunità attorno a questi episodi. La definizione di tortura esiste già. La danno le Nazioni Unite nella convenzione di cui l’Italia è parte. La tortura è “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito”.
Il testo oggi in discussione non cita il requisito del dover essere pubblico ufficiale per poter commettere tortura. Credo sia una gravissima mancanza. La tortura non è una violenza privata: per quella è vero che le fattispecie di reato già presenti nel codice sono sufficienti. La tortura è un evento pubblico, che può cambiare la storia, che è stata usata da regimi o da sistemi per affermare il proprio dominio sul singolo e l’arbitrio del potere, per affermare una rottura nello stato di diritto e il porsi del ‘sovrano’ di turno al di sopra della legge. Ma tant’è. Tanto si è scritto e tanto si è detto sul fatto che limitare il reato alle forze dell’ordine avrebbe offeso la loro sensibilità che la specificazione è stata tolta.
Ora della parola ‘reiterate’ e di qualsiasi altra modifica Alfano abbia in mente davvero non si comprende il senso. Come quando anni fa, durante un’altra delle tante discussioni parlamentari finite nel nulla, il governo affermò che, affinché ci sia tortura, le sofferenze inflitte non vedono essere “fisiche o mentali”, come dice il testo Onu, bensì “fisiche e mentali”. Viene da ridere. I detenuti di Abu Ghraib incappucciati, denudati e circondati da cani ringhianti non avrebbero dunque subito tortura. Non si capisce perché le istituzioni si mettano così spesso di traverso nei confronti di una legge capace davvero di punire la tortura. Se non per una protezione aprioristica e sciocca nei confronti delle forze dell’ordine, che sarebbero ben più tutelate nelle loro tantissime componenti oneste da un testo serio e apprezzato a livello internazionale.