Attualità

Donald Trump, ritratto del ‘profeta dell’autoabbronzante’

Il candidato del partito repubblicano è un fenomeno pop, e questo va ammesso proprio ricordando di essere imparziali quanto più possibile e di evitare letture distorte dalle posizioni politiche

di Domenico Naso

Marmo rosa, ottone e specchi. Chi ha avuto la “fortuna” di visitare la Trump Tower di New York forse si è già fatto un’idea su Donald Trump, o almeno sull’estetica di un uomo ad alto tasso di pacchianeria. Le strane tonalità di rosa e ottone dei rivestimenti interni del grattacielo sulla Quinta Strada sono le stesse del volto dell’uomo più arancione del mondo, il Profeta dell’Autoabbronzante che a novembre potrebbe diventare il presidente degli Stati Uniti d’America, l’uomo più potente del pianeta, il superpoliziotto del mondo.

La storia di Donald John Trump è una storia americana ma anche no, nel senso che il Nostro ha ereditato un enorme patrimonio dal padre (che aveva risollevato le sorti dell’impresa di famiglia dopo un lungo periodo di crisi) e dunque non è un vero e proprio selfmade man. Certo, intraprendente lo è sempre stato, così come è sempre stato politicamente scorretto, eccessivo, trash fino all’incredulità, arrogante. È il simbolo di una certa attitudine volgare di ampi settori imprenditoriali della città di New York, e non se ne è mai vergognato.

Tre mogli, cinque figli, otto nipoti: Donald Trump è il patriarca di una famiglia allargata che vive delle sue intuizioni geniali e delle sue insopportabili bizzarrie. Da Ivana Trump all’ex modella slovena Melania Knauss (attuale moglie), passando per la meteora Marla Maples, le donne di Trump devono essere appariscenti e sorridenti, forti e al tempo stesso adatte a sopportare un ego così spropositato e ipertrofico.

Di soldi ne ha parecchi, il Nostro, visto che si parla di un patrimonio di 9 miliardi di dollari, ma non si accontenta. Sembra quasi che il denaro per lui sia solo un mezzo per raggiungere altro, la gloria imperitura, il potere. Dalla televisione al wrestling, da comparsate cinematografiche nel ruolo di se stesso a campagne pubblicitarie, la bulimia presenzialista di Trump andrebbe studiata psicologicamente, oltre che come fenomeno (sub)culturale. C’è qualcosa, in quell’uomo, che rimanda a compensazioni, istrionismo, narcisismo patologico. Qualcosa che va al di là dei giudizi di merito sulle idee politiche del candidato Trump e sul suo non certo elegante e raffinato stile di vita.

Donald Trump è un fenomeno pop, e questo va ammesso proprio ricordando di essere imparziali quanto più possibile e di evitare letture distorte dalle posizioni politiche. E se ha ottenuto più di 14 milioni di voti alle primarie repubblicane (record assoluto nella storia dell’Elefantino) è anche e soprattutto perché il “personaggio” (prima ancora che la persona) sa parlare all’America profonda, viene quasi da dire all’unica America che esiste. Perché noi europei possiamo anche continuare a raccontarci la favoletta di New York e Los Angeles come centri nevralgici degli Usa, se vogliamo, a l’America è esattamente quello che sta in mezzo alle due grandi metropoli.

New York e Los Angeles, semmai, sono le capitali morali e culturali dell’Occidente tutto, di un certo modo di vivere che è paradossalmente americano e non, al tempo stesso. Ma l’America profonda adora Donald Trump: quella conservatrice sul serio, che vuole sparare e difendere a pallettoni il proprio cortile anche dai ragazzini che giocano a Pokemon Go, quella un po’ razzista (anche se non si può più dire) che in questi ultimi tempi sta di nuovo rialzando pericolosamente la testa, quella che detesta Hollywood e il suo politicamente corretto e New York e la sua fauna intellettuale liberal e radical che sembra vivere in un altro mondo.

Noi europei dell’America abbiamo sempre capito poco, convinti come siamo che basti una sceneggiatura di Nora Ephron o un disco di Bruce Springsteen per perforare la corazza della società più complessa del mondo, paradossalmente obbligata a occuparsi di un resto del pianeta che in realtà detesta e vorrebbe tenere a debita distanza.

Donald Trump vuole tirar su un muro al confine con il Messico, dalla California al Texas, pur di non vedere più gli immigrati irregolari invadere gli Usa. Argomento che non poteva che risvegliare l’orgoglio proprio di quell’America profonda che a furia di indottrinamento patriottico negli ultimi due secoli ha dimenticato di essere frutto proprio di ripetute ondate migratorie, discendente da orde di europei con le pezze al culo, reietti, criminali in cerca di una seconda possibilità.

Trump intercetta questi sentimenti, in politica come nella cultura popolare. In fondo è l’uomo che, pochi anni fa, è arrivato anche a calcare il ring del wrestling, altra fissazione a stelle e strisce. Posticcia anch’essa, perché di vero nel wrestling non c’è nulla, ma è comunque la simulazione dello scontro fisico e muscolare che piace tanto agli americani, convinti che in fondo la vita funziona così: il più forte (o il più furbo) sconfigge e annienta il più debole, che soccombe e smette di essere rilevante nella società. È una selezione (in)naturale che in fin dei conti ha forgiato gli Stati Uniti d’America almeno dai tempi della corsa all’Ovest in poi e che Donald Trump rappresenta nel migliore dei modi, con il suo modo quasi piratesco di essere imprenditore.

Ed è la stessa filosofia alla base di The Apprentice, lo show che lo ha visto come Boss e giudice unico e assoluto (in Italia avevamo Flavio Briatore, perché ognuno ha il Trump che merita): giovani ambiziosi portati al limite di possibilità e volontà, che dovevano dimostrare di essere disposti a tutto (e capaci di tutto) pur di farcela. Anche qui, i più deboli, i meno furbi, erano inevitabilmente fatti fuori: “You’re fired!”, “Sei licenziato”, urlava il boss Trump ai malcapitati che si rivelavano indegni di lavorare al suo fianco.

È una visione di una società in cui il pesce grosso mangia il pesce piccolo per saziare appetiti e ingordigie, non per sopravvivere ma per sopraffare. Ed è questa aderenza totale di Trump con una certa America a preoccupare in vista del voto di novembre. In fondo, Hillary Clinton rappresenta proprio quel ceto liberal da East Coast (con amicizie cool sulla West Coast, ovviamente) che dall’Oregon alla Virginia, dal Minnesota al Texas, milioni di americani detestano. Così come lo detesta Donald Trump, appunto.

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