G8 di Genova, fu vera tortura? Certamente sì per la Corte europea dei diritti dell’uomo, che l’anno scorso ha qualificato così l’irruzione alla scuola Diaz pronunciandosi sul ricorso di uno dei pestati e arrestati di quella notte, il sessantenne Arnaldo Cestaro (oggi sul manifesto la sentenza completa). Certamente sì anche per i magistrati che condussero l’inchiesta sugli abusi, nella caserma di Bolzaneto, contro i manifestanti fermati in piazza. Solo che, notavano i pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati, in Italia all’epoca il reato di tortura non esisteva e dunque non poteva essere contestato a nessuno dei poliziotti, carabinieri, agenti e medici penitenziari finiti sotto processo, concluso con 37 prescritti e sette condannati.
Sono passati quindici anni da quelle tragiche giornate del luglio 2001 e siamo allo stesso, identico punto. Una legge sulla tortura non c’è. Proprio a ridosso dell’anniversario del G8, il ministro Angelino Alfano, garantista a corrente alternata, ha affossato il testo in discussione al Senato. “Dovrà essere rivista dalla Camera”, ha affermato, “per evitare ogni possibile fraintendimento riguardo l’uso legittimo della forza da parte delle forze di polizia”. Forze di polizia che, attraverso i loro innumerevoli sindacati, hanno condizionato l’iter del provvedimento. Così il Pd cuor di leone ha accettato la proposta del centrodestra di rinviare l’esame in Aula per evitare di andare sotto (o di dover cercare una maggioranza alternativa).
Nella loro requisitoria, Petruzziello e Ranieri Miniati citarono innanzitutto l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. E che cosa, in assenza di una norma del codice penale, può essere definito tortura? Lo dice il primo articolo della Convenzione Onu in materia, quella che l’Italia ha ratificato nel 1989 ma si ostina a non tradurre in legge: qualsiasi atto commesso da un pubblico ufficiale “mediante il quale sono intenzionalmente inflitti a una persona dolore o sofferenze fisiche o mentali, con l’intenzione di ottenere (…) una confessione o un’informazione, di punirla per un atto (…) commesso o che è sospettato di aver commesso”. I responsabili degli abusi di Bolzaneto non erano neppure interessati alle informazioni. Inneggiando a Hitler e a Pinochet, passarono direttamente alla punizione fai da te delle “zecche” e delle “troie comuniste” in stato di detenzione. I pm andarono anche a recuperare vecchie sentenze della Corte europea. Una del 1978, riferita alla guerra civile in Irlanda del Nord, ritenne “inumani e degradanti” maltrattamenti quali costringere a stare in piedi contro il muro, sottoporre a rumore, privare del sonno, privare di cibo e bevande, incappucciare. A Bolzaneto, sottolinearono i magistrati, mancò solo quest’ultimo.
Tutto ciò, concludevano Petruzziello e Ranieri Miniati nella requisitoria, “è potuto avvenire, come in ogni caso di tortura, grazie alla parola chiave: impunità“. Identiche le conclusioni della Corte europea sul caso Diaz, con l’esortazione all’Italia perché stabilisca “un quadro giuridico adeguato, anche attraverso disposizioni penali efficaci”. Ora Alfano blocca di nuovo tutto. Tanto garantista sulla prescrizione per i corrotti quanto forcaiolo su botte e umiliazioni inflitte da personale in divisa.